STORIA DELL’ANTISEMITISMO

Mi piacerebbe oggi non essere qui a celebrare per l’ennesima volta la giornata della memoria, nata nel 2005 per ricordare la shoah, cioè la persecuzione e il genocidio degli ebrei nell’Europa del XX secolo. Ciò fu deciso dall’ONU per sensibilizzare i cittadini di tutto il mondo contro l’odio rivolto verso l’etnia ebraica, cioè contro una delle numerose forme di razzismo presenti nel mondo contemporaneo.

Si potrebbe pensare che almeno nell’Occidente, dove predominano i governi democratici, il problema dovrebbe essere stato superato, ma, se formalmente è così, cioè le leggi proclamano l’uguaglianza e la pari dignità di tutti i cittadini, in realtà i singoli individui spesso agiscono in preda a pulsioni passionali e a pregiudizi profondamente radicati. Infatti la cronaca ci racconta, ad esempio, delle continue minacce di morte alla senatrice Liliana Segre, una delle ultime superstiti ancora in vita, o dell’accoltellamento a Roma  di una turista israeliana da parte di un polacco. Senza contare il ruolo svolto dai social, seguiti per lo più dai giovani che sempre più spesso da esso mutuano idee e comportamenti.

Perciò, per difendere la vita ebraica in Europa contro questo fenomeno in continua crescita, nell’ottobre 2021 i massimi vertici europei hanno sentito il bisogno, per la prima volta nella storia, di varare un “piano contro l’antisemitismo”.

Questo fenomeno inizia nel momento in cui gli ebrei furono riconosciuti come un gruppo etnico con usi, diritti e costumi religiosi propri. Il popolo ebraico ha alle spalle una storia millenaria iniziata in Palestina nel secondo millennio a. C. Si trattava di pastori seminomadi suddivisi in clan e tribù. Attorno al ‘900 a.C. alcuni di essi istituirono il regno d’Israele con capitale Samaria distrutta nell’VIII secolo dagli Assiri che deportarono gli abitanti in Mesopotamia. Successivamente più a sud fu istituito il regno di Giuda. Nel VI secolo il re babilonese Nabucodonosor attaccò il regno di Giuda deportando parte degli abitanti a Babilonia, finché, dopo circa 70 anni il re persiano Ciro conquistò Babilonia, consentì agli ebrei di tornare a Gerusalemme e ne fece suoi sudditi, tuttavia essi non si mescolarono ai conquistatori, ma continuarono a seguire le loro tradizioni, non perdendo così la loro specificità.

Per quanto riguarda le caratteristiche dell’etnia ebraica esse sono:

  • La Torah (per i cristiani Antico testamento), secondo la tradizione ebraica rivelata da Dio a Mosè sul monte Sinai
  • La rappresentazione di Dio che è unico, non ha nome (Javeh significa “colui che è), non è visibile  e non è rappresentabile
  • Lo Shabbat, ossia il riposo del sabato, giorno in cui anche Dio si riposò dopo la creazione. In questo giorno c’era il divieto di compiere qualsiasi azione materiale
  • Il divieto di mangiare carne di maiale
  • La circoncisione, che è la più gravida di conseguenze perché è irreversibile, perciò durante il nazismo era più facile individuare gli ebrei.

Ecco come nella Bibbia viene raccontata l’alleanza e la circoncisione (Genesi 17-14)

Come abbiamo visto si tratta di un patto esclusivo e caratteristico che li differenzia da tutti i loro contemporanei che erano politeisti ed inclusivi, tanto è vero che nel loro pantheon, in caso di conquista di popoli stranieri, erano pronti ad inserire i loro dei.

Lo storico Jerome A. Chanes individua tre tappe nella storia di questo fenomeno:

  • L’antisemitismo antico, principalmente etnico
  • L’antisemitismo cristiano religioso
  • L’antisemitismo razziale

Prima di iniziare l’analisi di queste tre categorie è bene però precisare che nell’antichità i popoli sconfitti e sottomessi erano di solito trattati duramente, quando non ridotti in schiavitù, i Greci poi  consideravano barbaro qualsiasi popolo che non fosse il loro. Quindi non è facile sapere con certezza che l’ostilità contro gli ebrei fosse specifica, tuttavia per quanto abbiamo già detto, uno sguardo particolare su questo popolo è innegabile che vi fosse.

Già nella Bibbia, nel libro di Ester, sposa di Assuero, forse Serse I, persiano figlio di Dario, ( siamo nel V secolo a. C. secondo la versione ebraica più antica, ma probabilmente il libro fu redatto soltanto nel IV secolo a. C.) si parla di un complotto contro i Giudei, sventato dalla regina.

Ecco cosa dice il decreto del re (Ester 13c-13g)

Le prime testimonianze storicamente documentabili di antisemitismo nel mondo antico si trovano nell’Egitto tolemaico del IV secolo a.C., quando i giudei, sotto Amenofi III o IV, vennero internati in 80.000 in una città abbandonata per essere poi liberati da Mosè, perché considerati impuri, misantropi e xenofobi.

In Siria la leggenda si arricchì di altri elementi, come la convinzione che gli ebrei nel loro tempio adorassero una testa d’asino e praticassero sacrifici rituali di uomini stranieri, come racconta Flavio Giuseppe in “Contra Apionem” (schäfer pag.21)

La leggenda dei sacrifici umani si protrarrà nel tempo fino ai giorni nostri insieme a quella della profanazione dell’ostia che, in uno degli svariati miti un macellaio avrebbe cercato di distruggere con un coltello e che, divisa in tre parti avrebbe sanguinato e a quella dell’avvelenamento dei pozzi diffusa durante le pestilenze che periodicamente scoppiavano in Europa.

Né è da sottovalutare l’influenza che ebbe sull’antisemitismo la rappresentazione della “scrofa degli ebrei”, presente in alcune chiese, soprattutto tedesche. In una variante, ad esempio, gli ebrei cavalcano una scrofa al contrario sollevandole la coda e leccandole l’ano. (chiostro della chiesa di Brandeburgo, 1230 circa)

Con la conquista del vicino oriente ad opera di Roma i pregiudizi passarono dal mondo greco a quello romano in cui gli ebrei vivevano pacificamente fin dal II secolo a.C.

La fine dell’antisemitismo antico si può far risalire all’Egitto ellenistico del I secolo d. C. quando gli ebrei vennero privati del diritto di cittadinanza e relegati in un quartiere di Alessandria, dando vita al primo ghetto della storia.

Si passa a questo punto all’antisemitismo cristiano, che è di carattere prettamente religioso.

L’ostilità dei cristiani nei confronti degli ebrei comincia con il Nuovo Testamento, cioè con i testi sulla vita e la missione di Gesù redatti da vari autori qualche decennio dopo la morte di Cristo, a partire dal 70.

I vangeli sinottici ( Marco, Matteo, Luca ), cosiddetti perché c’è una sorta di parallelismo nei loro racconti, le lettere di San Paolo, vero fondatore del cristianesimo, e soprattutto il vangelo di Giovanni registrano una situazione di tensione tra cristiani ed ebrei; addirittura Giovanni indica Satana come vero padre loro, con le conseguenze che conosciamo. Inoltre essi consideravano gli ebrei, non solo quelli contemporanei a Gesù, ma anche le generazioni successive, responsabili della sua morte e perciò deicidi. Tale convinzione si protrasse nei secoli, fino ad arrivare ai nostri giorni. Tralasciamo per ora il discorso sul genocidio moderno e citiamo solo le preghiere del venerdì santo, rivolte a dio anche a favore degli ebrei e che però suscitarono le proteste degli stessi perché suonavano offensive ai loro occhi.

Infatti nel Messale Romano del 1962 si dice: (foglio a parte: Note sulla preghiera per “perfidis iudaeis”)

Nel Messale Romano del 1970 è corretta nel seguente modo: (foglio a parte: Note sulla preghiera per perfidis Iudaeis)

Senza contare che nelle invocazioni a favore di altri non ci si inginocchiava, mentre arrivati a parlare di ebrei lo si faceva.

Ritornando al discorso storico, nella tarda antichità sia la legislazione ecclesiastica, sia quella statale inasprirono le norme contro gli ebrei escludendoli dai consigli cittadini (curiae), sia dai pubblici uffici.

Nel mondo islamico Maometto, trasferitosi a Medina nel 622, dapprima stipulò accordi di pace con le tribù ebraiche, ma successivamente i rapporti si inasprirono fino a giungere alla persecuzione, uccisione, espropriazione e divisione dei beni tra i musulmani ed anche il Corano, il libro sacro dei credenti contiene versetti molto critici nei confronti degli ebrei.

Durante il Medioevo in occidente gli ebrei furono oggetto tanto di persecuzione quanto di protezione sia da parte della chiesa che dello stato. Il sovrano, infatti, li considera sua proprietà e perciò da tutelare, ma anche da sfruttare, in quanto automaticamente è suo anche tutto ciò che appartiene loro. Oltre alla politica di rapina dei beni dei giudei ci furono anche ondate di massacri in tutta Europa, la prima delle quali ebbe inizio tra il1096 e il 1099  con la prima crociata.

Nel 1095 a Clermont papa Urbano II chiamò alla lotta contro i musulmani per la liberazione del Santo Sepolcro, ma in qualche modo l’astio contro i musulmani coinvolse anche gli ebrei. I crociati, nel dirigersi verso la Palestina lasciarono una scia di sangue con l’annientamento di molte comunità ebraiche.

Il virus dell’odio si diffuse anche nella penisola iberica e culminò con la cacciata dal regno di Castiglia e Aragona ad opera di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona dopo che ebbero cacciato gli arabi. Gli ebrei che rimasero si convertirono al cristianesimo e vennero chiamati marrani (cinghiali). Per controllare i rimasti venne poi istituita l’Inquisizione e si affermò il concetto proto razzista di “limpieza de sangre” (purezza del sangue).

Fu in questo periodo che si cominciò ad imporre agli ebrei segni distintivi quali la rota, cerchio di stoffa da apporre agli abiti ed il cappello di forma conica. La stella di Davide è poco attestata, mentre sarà prevalente durante il nazismo.

Con l’Umanesimo e il Rinascimento, pur permanendo i vecchi atteggiamenti, si risvegliò l’interesse per l’ebraismo, gli studiosi cominciarono a staccarsi dalle premesse teologico-istituzionali e rivendicarono il diritto di ognuno a formarsi una propria opinione.

Questo però non avviene in Lutero, frate agostiniano a cui dobbiamo la riforma protestante. Egli fu un feroce antisemita e invitò a perseguitare gli ebrei e a indire pogrom contro di loro, rimproverando i cristiani per non averli uccisi, come scrive nel trattato “Degli ebrei e delle loro menzogne”: ( Schäfer pag. 148).

Con l’Illuminismo che decreta l’emancipazione degli ebrei inizia per loro un nuovo periodo, anche se il sospetto e l’odio permangono perfino in uno dei più significativi esponenti di questo movimento, Voltaire, che nel Dizionario Filosofico, alla voce “Juifs” scrive: (Schäfer pag. 156)

Né il nazionalismo che si afferma nell’ ‘800 migliora la situazione perché gli ebrei, fedeli alle loro leggi e tradizioni vengono percepiti come uno stato dentro lo stato, perciò come un corpo estraneo, soprattutto in Germania. In Italia invece questo non avvenne, anzi per tutto l’Ottocento e i primi del ‘900 essi parteciparono alle guerre di indipendenza e alla prima guerra mondiale e a volte ricoprirono anche alte cariche di governo come Luigi Luzzatti (1910-11), Alessandro Fortis (1905-6) o Sidney Sonnino (1906 _ 1909-10).

La situazione precipita alla fine del XIX° secolo, quando si moltiplicarono i sostenitori dell’antisemitismo etnico razzista e si diffusero in tutta Europa gli stati totalitari.

Il principale rappresentante di questa teoria fu lo scrittore inglese Houston Stewart Chamberlain che affermò la razza ebraica essersi mantenuta pura come quella ariana, ma proprio per questo in pericolosa concorrenza con essa e, per salvare il cristianesimo dallo stretto legame con l’ebraismo arrivò a sostenere che Gesù non era ebreo.

Uno dei casi più famosi di persecuzione fu quello di Alfred Dreyfus, ufficiale di Stato maggiore dell’esercito francese accusato di spionaggio a favore del Reich e poi definitivamente scagionato anche grazie all’intervento di Emile Zola e del suo “J’accuse”.

Dei primi del ‘900 sono invece “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, un falso documento creato dalla polizia segreta zarista (Ochrana) per diffondere l’odio nei confronti degli ebrei nell’impero russo. Essi sostengono l’esistenza di un complotto ebraico massonico il cui obiettivo sarebbe di impadronirsi del mondo. Tale documento apparve subito falso, ma, nonostante ciò, ancora oggi continua a riscuotere credito tra i partiti islamisti e fondamentalisti del Medio Oriente.

Ecco come Umberto Eco ne “Il cimitero di Praga” enumera alcune intenzioni dei complottasti ebrei: (Libretto rosso , pagg.4-5)

Con l’avvento in Europa degli stati totalitari dopo la prima guerra mondiale, la pace di Versailles e la crisi economica del 1929, la situazione precipitò fino alla catastrofe della shoah.

Il partito che ebbe un’importanza decisiva per lo sviluppo dell’antisemitismo nel III° Reich fu il partito nazionalsocialista dei lavoratori, fondato nel 1920 e di cui Hitler prese subito la guida. Giunto poi a capo dello stato il 30 gennaio del 1933, egli cominciò ad applicare il programma di purificazione della razza ariana già preannunciato nel “Mein Kampf”.

Nella prima fase del nazismo i passi decisivi furono il boicottaggio del commercio ebraico, le leggi di Norimberga e “la notte dei cristalli”. Il I° aprile 1933 le varie organizzazioni naziste presidiarono negozi e studi di professionisti ebrei impedendo ai clienti di entrare. Successivamente agli ebrei vennero interdetti i pubblici uffici e, il 15 settembre 1935 le “leggi di Norimberga” distinsero cittadini a tutti gli effetti, quelli con puro sangue ariano, che doveva essere mantenuto puro, e cittadini di seconda classe, gli ebrei. Naturalmente erano vietati i matrimoni o anche i soli rapporti sessuali tra i due gruppi.

La “Notte dei Cristalli” (9-10 novembre 1938) fu  un vero e proprio pogrom, ideato da Goebbels, in cui migliaia di persone (circa 26.000) vennero rinchiusi nei campi di concentramento, (i primi furono Dachau vicino a Monaco e Orianienburg a nord di Berlino) centinaia furono uccisi, mentre  sinagoghe, abitazioni e negozi vennero saccheggiati e dati alle fiamme.

Nemmeno la guerra, iniziata il I° settembre 1939, mise fine al massacro degli ebrei, a lungo denominato impropriamente ”Olocausto”, perché l’olocausto è un sacrificio rituale compiuto nel tempio. Meglio perciò parlare di “shoah” (catastrofe, annientamento).

Uno dei principali organizzatori dello sterminio fu Reinhard Heydrich il quale, il 30 gennaio 1942, convocò la Conferenza di Wansee per decidere della cosiddetta  “soluzione finale”, eufemismo per indicare l’uccisione di tutti gli ebrei d’Europa,  già in larga parte confinati nei ghetti e nei campi di concentramento, ma anche presenti nei territori occupati dalle truppe tedesche.

All’inizio gli assassini avvenivano tramite fucilazione, soprattutto nei territori occupati, dove, a seguito dell’esercito tedesco operavano gli einsatzegruppe, formati da volontari, oppure in camion sigillati in cui si facevano confluire i gas di scarico del motore. Le operazioni erano lunghe e difficili da sopportare per gli stessi carnefici, finché si trovò il modo per rendere tutto molto più semplice. L’industrializzazione di questo processo di morte, perché si deve parlare di un vero e proprio processo industriale, si ebbe quando Fritzsch, vice di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, ebbe l’idea di eliminare dei prigionieri russi con lo Zyclon b (acido cianidrico) e convinse il suo capo a servirsene.

Ecco come Höss, nella sua autobiografia “Comandante ad Auschwitz”, scritta mentre attendeva l’esecuzione della condanna a morte comminatagli dopo la guerra da un tribunale polacco, ricorda l’eliminazione degli ebrei: (Höss, Comandante ad Auschwitz pagg. 174-175)

Nel secondo dopoguerra le cose non cambiarono molto: la gente comune tentò di dimenticare in  fretta, la denazificazione dello stato in realtà non venne applicata e molti dei vecchi politici e funzionari del Reich rimasero al loro posto, ma anche le chiese cristiane repressero ogni riferimento agli omicidi di massa ed evitarono ogni tipo di discussione in merito alla loro acquiescenza o partecipazione ai fatti.

In Italia, se pensiamo all’antisemitismo, ci vengono in mente le leggi razziali fasciste del 1938 che diedero inizio alla persecuzione degli ebrei e  che però non fecero altro che radicalizzare altre manifestazioni di razzismo come quello contro il mondo slavo o quello coloniale nato alla conquista dell’Eritrea negli anni ’80 dell’Ottocento.

Sul fronte interno invece il rifiuto dell’altro invece puntò contro i cosiddetti diversi tra cui, appunto gli ebrei, o i cosiddetti diversi come omosessuali,prostitute, alcolisti, ma anche socialisti o anarchici.

Per quanto riguarda gli ebrei, durante il ventennio, la vulgata giustificazionista vorrebbe portare avanti una visione edulcorata della situazione presentando gli italiani come “brava gente” che avrebbe agito su istigazione dei tedeschi. In realtà gli Italiani collaborarono attivamente alla persecuzione con le forze di polizia, ma anche con la delazione su ricompensa.

Un altro capitolo importante della nostra storia riguarda il comportamento tenuto dai papi della chiesa cattolica che regnarono nel secolo XX.

Nel periodo che consideriamo assursero al soglio pontificio due pontefici: Pio XI (Achille Ratti) che regnò dal 1922 al 1939 e Pio XII  (Eugenio Pacelli) (1939- 1958), segretario di stato che nel luglio 1933 firmò il Concordato tra la Chiesa e il Terzo Reich, provocando il sollievo di Hitler che lo aveva fortemente voluto perché creava un’atmosfera di fiducia che non avrebbe ostacolato i piani antiebraici.

Ma il papa era preoccupato per la sorte dei cattolici tedeschi, dato che i nazisti erano anche anticristiani, per cui nel 1937 emana l’enciclica “Mit brennender sorge” (Con viva ansia), per cercare di tutelarli, spezzando una lancia anche a favore degli Ebrei. Faccio notare che di solito le encicliche papali sono scritte in latino, mentre questa è in tedesco ed è indirizzata ai vescovi tedeschi, indizio significativo dell’attenzione particolare che la Chiesa nutriva per la situazione dei non ariani.

Ma la situazione ebraica si aggrava ulteriormente, per cui egli chiede a tre gesuiti, John La Farge, Gustave Desbuquois e Gustav  Gundlach, di preparare la bozza di un’enciclica: “Humani Generis Unitas”, in cui condannare il nazismo in quanto contrario alla fede cristiana.

HUMANI GENERIS UNITAS

Par. 5 e 132

Le alte sfere del clero, però, erano ostili a questa presa di posizione, anche perché il nazismo era visto da molti come un baluardo al comunismo, per cui tergiversarono così a lungo che il papa, gravemente malato, probabilmente non riuscì nemmeno a leggere la bozza prima di morire e ci vollero decenni prima che se ne sapesse qualcosa. Naturalmente non possiamo sapere se quest’enciclica avrebbe potuto cambiare il destino di milioni di Ebrei, dato il carattere di Hitler e del regime nazista.

Il suo successore, Pio XII, ebbe, nei confronti della tragedia che si stava verificando in Europa, un atteggiamento molto controverso. Sembra che in privato si dolesse delle notizie che apprendeva dai suoi prelati, ma non espresse mai una protesta ufficiale, accennando solo, nel discorso del Natale del 1941, a chi veniva perseguitato per la sua razza. Anche quando iniziarono ad essere deportati gli Ebrei di Roma, egli fece due interventi semi-ufficiali presso i Tedeschi perché gli arresti fossero sospesi per mantenere pacifici rapporti fra chiesa e Comando militare tedesco. Ma non andò oltre, per cui i Tedeschi agirono di conseguenza.

I difensori della linea di condotta di Pio XII sostengono che la sua cautela fu dovuta alla consapevolezza che il fanatismo nazista non si sarebbe fermato neanche dopo una protesta del      Vaticano, ma che la situazione sarebbe potuta peggiorare e che inoltre il papa non aveva poteri tali che una sua azione avrebbe potuto essere veramente significativa. Visti i dati raccolti a posteriori, è immaginabile che la sua fu una scelta strategica che gli venne riconosciuta come valida dagli stessi Ebrei.

In realtà non tutti gli ecclesiastici furono tiepidi nei confronti della questione, ma il soccorso ai perseguitati fu dato più dai singoli membri del clero che dall’istituzione.

Ho iniziato parlando dell’attualità dell’antisemitismo. Riferendosi a questo fenomeno configuratosi nel XXI secolo, gli s torici lo chiamano “neoantisemitismo. Esso è attuato da movimenti di estrema destra e di estrema sinistra e da gruppi islamisti jihadisti e fondamentalisti islamici che si oppongono al Sionismo e all’esistenza stessa dello stato di Israele, ma maschera anche l’odio razziale sotto forma di critica ad uno stato.

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Percorrere la flagellazione di Piero della Francesca

Corrado Mauri

Perché scegliere la Flagellazione di Piero della Francesca quale settima opera per la nostra sezione Capolavori? I motivi sono ovviamente legati al mio vissuto artistico, Piero della Francesca è stato sin dall’inizio e cioè dall’epoca del Liceo Artistico e per sempre, con Michelangelo, uno dei miei due artisti preferiti, gli artisti del cuore, a cui si è poi aggiunto il Caravaggio. Tre personalità molto differenti tra loro e che ci offrono l’atto creativo in modi ovviamente ben diversi, ma autentici e totalmente coinvolgenti. Piero sempre con l’uso puntuale della razionalità, Michelangelo nel suo continuo travaglio interiore di un potente carattere in lotta con la ristretta dimensione umana ed il Caravaggio che si immerge nella realtà della vita quotidiana sublimandola attraverso la luce.

Di Piero della Francesca ci rimangono solamente 20 opere di pittura e 3 trattati di matematica e geometria, dobbiamo prendere atto, purtroppo, che proporzionalmente sono di più le sue opere andate perse, e già dai primi decenni del Cinquecento, di quelle pervenuteci.

La Flagellazione, conservata nella Galleria Nazionale delle Marche, nel Palazzo ducale di Urbino, è indubbiamente il dipinto più studiato della sua produzione e dei più analizzati dell’intera Storia dell’Arte. Pietro Longhi lo definiva “una congiunzione misteriosa di matematica e pittura”, Antonio Paolucci “La sciarada iconografica ed iconologica più affascinante della Storia dell’Arte” e così via. Intere biblioteche sono state scritte, ma a tutt’oggi il mistero rimane insoluto. Un’idea di fondo c’è, abbastanza condivisa, ma rimane sempre una possibile ipotesi, niente di certo e soprattutto documentato. Il fatto che è raffigurato uno dei momenti più tragici della Passione di Cristo è l’unica certezza, ma viene decontestualizzato il momento storico, assumendo così un possibile significato più ampio sul piano simbolico.

Ma è opportuno conoscere, in sintesi, la storia personale di Piero della Francesca per tentare di percorrere i meandri di questo dipinto. Piero nasce a Borgo San Sepolcro (odierna Sansepolcro in provincia di Arezzo) intorno al 1412, data definita in base a deduzioni logiche, da una famiglia di commercianti di pellame, lana e tinture. Già negli anni di formazione approfondisce lo studio della matematica, che rimarrà poi costante lungo la sua intera vita e base della sua stessa pittura, da un “maestro d’abaco”, lezioni impartite in particolare ai figli di commercianti per introdurli alla contabilità mercantile. Frequenta la bottega di Antonio D’Anghiari, pittore di araldica ed una nota del dicembre 1432 attesta il debito del D’Anghiari nei confronti del padre di Piero per il salario del giovane. Non sappiamo di preciso quando Piero entra nella bottega di Domenico Veneziano, tra i maggiori esponenti dei cosiddetti “Pittori della luce” e collabora con lui negli affreschi del Palazzo di Braccio Baglioni a Perugia dal 1437 al 1438. Nel 1439 entrambi sono a Firenze per gli affreschi nel coro di S. Egidio, poi interrotti, portati avanti da Andrea del Castagno e conclusi da Alessio Baldovinetti nel 1461. Sempre con Domenico Veneziano nel 1446-7 è a Loreto per affreschi nella volta della Sacrestia di una chiesa, interrotti a causa della peste; successivamente nel 1469-71 la chiesa viene abbattuta per far posto alla grande Basilica rinascimentale. Piero opera ancora nella Marche, forse a Camerino, a Pesaro e, come racconta il Vasari, in S. Ciriaco ad Ancona “all’altare di S. Giuseppe dipinse in una storia bellissima lo Sposalizio di Nostra Donna”. Successivamente, 1446-7, si trasferisce a Ferrara alla corte di Lionello d’Este nel cui Palazzo affresca “molte camere” con scene di battaglia, altri affreschi nella Cappella della chiesa di S. Andrea degli Agostiniani. Di tutto quanto detto non ci è giunto nulla e non possiamo fare altro che rammaricarci per queste gravissime perdite. Ripetute le presenze anche a Roma, solamente ipotetica quella nel 1450 per il Giubileo, nel 1455 esegue affreschi in Vaticano per Papa Nicolò V e nel 1459 altri affreschi per Pio II, anche queste opere, in non buone condizioni anche a seguito di un incendio, sono state poi demolite per lasciare posto agli affreschi di Raffaello. A Roma ci rimane solamente un affresco, con attribuzione incerta ed in cattive condizioni, con l’evangelista Luca nella volta della Cappella di S. Michele in S. Maria Maggiore. Ma la sua presenza a San Sepolcro, pur se alterna, è comunque significativa: è lì nel 1442 e nel 1445 riceve la importante commissione del Polittico della Misericordia per l’omonima Confraternita (non ancora terminato nel 1454). Nel 1450 firma e data il S. Gerolamo di Berlino. In questo arco di anni esegue anche un Trittico per la chiesa di S. Giovanni Battista, il cui pannello centrale è il Battesimo di Cristo, attualmente alla National Gallery di Londra. È probabile che successivamente inizi a scrivere il Trattato d’Abaco.

 Nel 1451 è a Rimini al servizio di Sigismondo Pandolfo Malatesta, prode condottiero, ma politicamente incapace in quanto non fu in grado di sfruttare la parentela con gli Estensi e gli Sforza ed era in permanente conflitto con i Montefeltro, in specie con il conte Federico. Nel Tempio Malatestiano operava come architetto il gotico Matteo de’ Pasti, noto anche per la sua attività di medaglista. L’apporto di Piero della Francesca è documentato dal solo affresco di Sigismondo in preghiera davanti a San Sigismondo nella “cella delle reliquie”, piccolo ambiente tra le due prime cappelle. Qui è il caso di aprire una breve ma significativa parentesi per comprendere quanto Piero fosse ricercato dalle varie corti dell’epoca. Nei suoi confronti le intenzioni di Sigismondo erano ben altre, esiste infatti una lettera che lo stesso scrive a Giovanni de Medici il 7 aprile 1449, in cui chiarisce che a Piero erano destinate le due cappelle nuove del Tempio Malatestiano e doveva diventare un artista di corte regolarmente stipendiato: “…è mia intentione volerme comporre cum lui et dargli tanto l’anno et farlo securo dove gli piacerà de havere quanto gli serrà promesso…Mia intentione è volerlo tractare bene, acciò venga a vivere e morire nelle terre mie…”. Ma la realtà fu altra, di fatto i propositi non si concretizzarono, nel Tempio, ancora stilisticamente gotico, la pittura di Piero anticipava il nuovo clima rinascimentale, ma già con la chiamata significativa di Leon Battista Alberti si metteva in atto un totale rinnovamento, anche per la presenza importante dello scultore fiorentino Agostino di Duccio. L’affidare alla scultura di Agostino l’intero apparato decorativo era nelle intenzioni dell’Alberti, a discapito della pittura. Ma indubbiamente lo scambio di idee, tra l’Alberti e Piero, i due si erano già incontrati a Firenze nel 1439, anche se non portò ad un risultato immediato e concreto, certamente contribuì all’avvicinarsi della loro concezione dell’Arte in rapporto all’uso dello spazio ed alla concezione del tempo e nel significativo confronto tra antico e moderno, così come tra la necessità di esprimere idee e concetti e l’aspetto prettamente decorativo. I loro furono percorsi artistico-culturali paralleli, con numerosi punti di contatto, ma ben individualizzati. Purtroppo, le condizioni dell’affresco riminese sono pessime, nei primi dell’Ottocento fu distaccato dal muro e fissato su tela, compromettendone ulteriormente la salvaguardia, così si è persa tutta la raffinata descrizione degli abiti e del fondo che riproduceva un arazzo con fiori, in cui si percepiva il contatto di Piero con la pittura fiamminga, più evidente nel ritratto del Malatesta, ora al Louvre. Ben chiara è l’impostazione spaziale dell’affresco con rapporti simmetrici puntuali, che si evidenziano nei pilastri e nello straordinario particolare dei due levrieri uno bianco e l’altro nero, simboli di fedeltà e prudenza e con l’invenzione dell’oculo aperto sul Castello riminese, quale emblema araldico.

Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a S. Sigismondo

Dal 1452 al 1466, obbligatoriamente in fasi alterne, vengono realizzati gli affreschi con La leggenda della Vera Croce, nella Cappella Maggiore (Bacci) in S Francesco ad Arezzo, l’unico ciclo di affreschi pervenutoci integralmente. Tema caro ai francescani e tratto dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varazze. La narrazione non segue il percorso cronologico, ma si sviluppa a temi con riferimenti alla situazione politico-religiosa di metà Quattrocento con la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453 che coinvolge direttamente la Chiesa cattolica. Ne riparleremo affrontando le tematiche della Flagellazione. Dal 1987 circa al 2000 sono durati i restauri degli affreschi, prima con approfondite analisi (ricerche con carattere di vero e proprio studio interdisciplinare) per capire le cause del grave degrado ed i relativi rimedi, in particolare anche ambientali. Si sono evidenziate così le varie tecniche utilizzate da Piero in questa sua opera, non solo ad affresco, ma anche a secco, usando biacche, lacche, verderame e tempere grasse, permettendo, così, il recupero della splendida luminosità dei colori, la forza dei volumi ed il grande respiro degli spazi. A tale scopo si sono reintegrate le numerose lacune con un discreto e rispettoso intervento pittorico, cioè col sistema della selezione cromatica ad acquarello, assolutamente reversibile.

Storie della Vera Croce – S. Francesco ad Arezzo

L’immagine sopra riportata raffigura: la parete sinistra dall’alto, tra parentesi in numeri romani la progressione cronologica: Esaltazione della Croce, Eraclio riporta la Croce a Gerusalemme (X) – Ritrovamento e prova della vera Croce (VIII) – La battaglia di Eraclio (IX); la parete centrale a sinistra: Profeta – Supplizio dell’ebreo (VII) – Annunciazione (IV) a destra: Profeta – Trasporto del legno (II) – Sogno di Costantino (V); la parete destra: Morte di Adamo (I) – La Regina di Saba prega sul Sacro Legno e Incontro con Salomone (III) – Battaglia di Costantino (VI)

Tutto è composto secondo un equilibrio generale e di simmetrie, nelle grandi lunette gli episodi si svolgono nel paesaggio con due alberi che fanno da perno compositivo, nel secondo registro la sensazione è di serena tranquillità, tutto assume un ritmo quasi cerimoniale, con forme geometriche precise e immobili, anche i gesti più semplici acquisiscono nobiltà. Anche qui le due scene si svolgono in parte in un paesaggio naturale, in parte sul fondo di architetture, la prima ha dietro a colline una straordinaria veduta di Arezzo, mentre a destra domina la facciata di una chiesa decisamente albertiana e la seconda è ritmata con due alberi che fanno da sfondo a cavalli con scudieri e statuarie dame, nell’interno del Palazzo di Salomone prevale la classicità che ritroveremo riportata, quasi puntualmente, nella Flagellazione. Nelle scene di battaglia la concitazione è bloccata, come fissata nel tempo, i gesti sospesi. Su tutto domina una luce netta e limpida. Qui si manifesta ormai chiaramente quella che Roberto Longhi chiama “la sintesi prospettica di forma e colore”.  

Il 20 dicembre 1466, sempre ad Arezzo, gli viene commissionato il Gonfalone della Compagnia della Nunziata “lavorato ad olio”, non pervenutoci; contemporaneo dovrebbe essere l’affresco con la monumentale Maddalena nel Duomo, vestita dei tre colori, verde, rosso e bianco, delle virtù teologali: Speranza, Carità e Fede. Nel 1467 Piero è a San Sepolcro e riceve nuove cariche pubbliche, è probabile che in questo periodo possano essere stati realizzati altri due affreschi fondamentali per il Borgo: il primo è la Resurrezione nella Sala cerimoniale del Palazzo dei Conservatori (attuale Museo Civico), divenuta simbolo ed emblema stesso della città, l’altro affresco è la Madonna del Parto, dipinta nella Chiesa di S. Maria a Momentana in Silvis presso il paese di Monterchi.

Nel 1468 un documento degli archivi di Perugia, con data del 21 giugno, afferma che le monache del Convento di S. Antonio ricevettero un contributo dal Comune per una Pala che avevano già fatto eseguire per la loro Chiesa. Si tratta del Polittico di S. Antonio (alla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia) descritto con grande ammirazione dal Vasari, ma che ha sempre lasciato molti interrogativi. Infatti, la sua parte centrale e la doppia predella hanno la tradizionale impostazione gotica a fondo oro, finemente lavorato, con colonnine ed archi in rilievo, mentre nella cimasa con la scena dell’Annunciazione il clima cambia completamente con una delle più belle prospettive rinascimentali. Lo stesso Vasari afferma “…e di sopra una Nunziata bellissima, con un angelo che par proprio che venga dal cielo e che è più, una prospettiva di colonne che diminuiscono, bella affatto.” Ma anche nella stessa sagomatura della cornice non sono più presenti le linee morbide e curve, ma spigoli vivi. Due mondi completamente diversi, che hanno suggerito non solo la possibilità di diversi autori, ma un successivo libero accostamento di componenti incongrue. Nel 1993 l’opera fu oggetto di studi approfonditi, di restauro e intervento conservativo, che confermò l’autografia pierfrancescana di tutto e nessuno strano assemblaggio. Un particolare avrebbe dovuto, da sempre, confermarne l’unitarietà e sono le aureole a specchio, altra straordinaria invenzione del nostro Piero, che riflettono perfettamente le teste a rovescio dell’arcangelo e della Annunciata, della Madonna, del bimbo e di tutti i santi. Un altro particolare ci sottolinea la straordinaria intelligenza di Piero: quando imposta la prospettiva del colonnato non fa coincidere l’esatta metà di questo con quella del Polittico, che si controlla con la verticale che attraversa il vertice a punta della cornice superiore con il bulbo sull’arco sopra la Madonna ed il bimbo, ma la decentra verso sinistra di modo che la prospettiva rimanga autonoma ed indipendente dalle impostazioni generali ed acquisisca, così, più importanza. Vedremo quanto questa puntuale attenzione alle impostazioni geometriche sia uno degli elementi basilari della Flagellazione, come di tutta la sua Arte.

In un altro Polittico per la Chiesa di S. Agostino a Borgo San Sepolcro, l’artista non adotta più il fondo oro, ma imposta uno spazio reale, con una balaustra continua e un cielo azzurro, per i santi posti ai lati del pannello centrale disperso, che inevitabilmente raffigurava una Madonna col bambino. Qui sotto ne vediamo una ipotetica ricostruzione, in quanto il Polittico, probabilmente, fu smembrato in occasione di un trasferimento, già nel Cinquecento. Ce ne rimangono otto pannelli, sparsi in cinque musei: S. Agostino al Museo Nazionale di Lisbona, S. Michele Arcangelo alla National Gallery di Londra, S.Nicola da Tolentino al Museo Poldi Pezzoli di Milano, alla Frick Collection di New York il S. Giovanni Evangelista, i pannelli più piccoli con S. Monica, un Santo agostiniano e la Crocefissione, S. Apollonia alla National Gallery di Washington. Al di là delle analisi storico-iconografiche, è interessante conoscerne la partecipazione ai pagamenti, che ci offre anche delle date importanti per collocarlo cronologicamente. La commissione viene da Angelo di Giovanni di Simone d’Angelo, dai frati agostiniani della Chiesa e dagli operai fabbricieri per una somma di 320 fiorini. Angelo fa preparare le tavole del Polittico con un esborso di 21 fiorini e si impegna a pagare 189 fiorini al pittore, anticipando la cifra di 100 fiorini con un appezzamento di terreno, promettendo altri 50 fiorini alla consegna. Il 4 novembre 1469 i frati e gli operai pagano al pittore 42 fiorini e gli cedono una vigna. Il 21 maggio 1470 gli eredi di Angelo pagano a Piero i pattuiti 50 fiorini.

Polittico S. Agostino – ricostruzione ipotetica

Nel 1469 lo ritroviamo ad Urbino, ospite di Giovanni Santi, il padre di Raffaello, dove è incaricato di completare una Pala d’Altare per la Confraternita del Corpus Domini iniziata nella parte della predella da Paolo Uccello, ma alla quale successivamente rinuncia e subentra il fiammingo Giusto di Gand. Ovviamente più che probabili i primi contatti con la corte di Federico da Montefeltro, per la quale realizza nel 1472 il Dittico dei Duchi di Montefeltro, oggi agli Uffizi di Firenze, in cui su due tavolette, che erano collegate da cerniera, sono i ritratti di Federico e della moglie Battista Sforza, che proprio in questo anno muore dando alla luce il figlio Guidobaldo. Sul retro dei ritratti due carri di trionfo difronte a luminosi ed ampi paesaggi e targhe celebrative.

Battista Sforza Federico da Montefeltro

Sino al 1478 la presenza di Piero si alterna tra Urbino e San Sepolcro. Qui, nel 1474, è pagato per gli affreschi in una cappella della Badia ed è preposto alle fortificazioni, inoltre è Priore di una Confraternita. Il Vasari fa riferimento all’attività di Pietro per la corte di Urbino “…fu adoperato da Guidobaldo (in realtà Guidantonio) Feltro, duca vecchio di Urbino, al quale fece molti quadri di figure piccole bellissimi, che sono andati in gran parte male, in più volte…”. Concretamente sono quattro i dipinti che legano strettamente Piero della Francesca alla corte di Urbino: il Dittico che abbiamo appena visto, la Flagellazione (Galleria Nazionale delle Marche a Urbino), la Pala di S. Bernardino o meglio Montefeltro (Pinacoteca di Brera a Milano) e la Madonna di Sinigallia (Galleria Nazionale delle Marche a Urbino). Ma oggi i dati sono molto incerti, non sappiamo quando e quanto tempo fu nella città, se non l’ante quem per il Dittico, per il resto solo ipotesi per le datazioni, peggio ancora per le destinazioni forse perché nessuna delle opere ebbe un riscontro od una eco immediata nella sua contemporaneità, confermando lo stretto rapporto, privilegiato ed esclusivo, con la corte del conte Federico, duca dal 1474.

Pala di S. Bernardino o Montefeltro
Madonna di Sinigallia

In tal senso è significativo un aspetto, che esulando dai dati prettamente figurativi, è fondamentale per capire la personalità di Piero e la sua stessa Arte, quello di profondo studioso della Matematica e della Geometria. Ne sono la chiara dimostrazione i suoi tre scritti: il Trattato d’Abaco, il De prospectiva pingendi e il Libellus de quinque corporibus regularibus. Nell’Abaco, scritto indicativamente dagli anni Sessanta ai primi Settanta, abbiamo una raccolta di 574 problemi aritmetici e geometrici, anche se Piero dichiara di “scrivere alcune cose de abaco necessarie a’ mercanti” procede poi per problemi, trovando soluzioni a casi particolari, senza fornire poi soluzioni generali, ma andando ben al di là delle esigenze pratiche. Gli studiosi e curatori dell’Edizione Nazionale degli scritti di Piero della Francesca, sotto l’egida del Ministero dei Beni Culturali, in merito al Trattato d’Abaco, pubblicato nel 2013 dal Poligrafico dello Stato, dichiarano che “il livello matematico dell’opera è troppo elevato” perché siano i mercanti i veri destinatari. Piero scrive anche di elementi di algebra, metà del Trattato è dedicato ad una ampia “casistica di equazioni e problemi di analisi indeterminata…non si limita alla soluzione di equazioni di primo e secondo grado, ma si spinge sul terreno della ricerca più avanzata, con equazioni di terzo e quarto grado ed oltre…Nella parte finale dove affronta problemi geometrici, il testo è corredato da 131 figure di mano di Piero, 78 di geometria piana e le restanti di geometria solida” (U. Bottazzini).

Trattato d’Abaco, fogli 38 r. – 82 r. e 88 v. del codice Ashburnham 280 (359, 291) della Biblioteca Laurenziana di Firenze, unico esemplare, scritto in volgare, conosciuto

Il trattato De prospectiva pingendi è il primo trattato interamente dedicato alla prospettiva, completamente illustrato e concepito come un manuale ad uso dei pittori. Descrive una raccolta di problemi prospettici corredati dalle relative figure che mostrano il procedimento grafico. Si compone di tre libri. Il primo si occupa di figure piane, tratte dall’ottica e dalla geometria euclidea con i relativi esercizi riguardanti le superfici. Il secondo tratta i solidi più elementari messi in prospettiva attraverso il metodo della diagonale. Il terzo, inerente a figure più complesse, rappresenta il metodo per pianta ed alzato, anche introducendo delle teste diritte od inclinate, di fronte o di profilo sulle quali sono contrassegnati da numeri i punti più importanti che saranno poi riportati sul piano pittorico per disegnare la testa in prospettiva.

Del Trattato si conservano sette esemplari, di cui quattro in Latino: Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. D 200 inf, seconda metà del XVI sec – Bordeaux, Bibliothèque Municipale, ms. 616, XV sec – Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, Latin 9337 (già Supplément latin 16), XVI sec – Londra, British Library, cod. Additional 10366, XV sec.  e tre in volgare: Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, mss. Regg. A 41/2 (già A 44), seconda metà del XV secolo – Parma, Biblioteca Palatina, ms. Parmense 1576, seconda metà del XV sec – Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. S.P. 6 bis (già C 307 inf.) XV sec.

 Il codice di Parma è totalmente autografo di Piero sia nel testo sia nelle centoquattordici figure; autografe sono anche tutte le figure, le correzioni interlineari, le glosse, le scritte che accompagnano i disegni dei manoscritti di Reggio Emilia (con due intere pagine), di Milano (l’ambrosiano latino) e di Bordeaux. Le oltre cento figure del codice di Reggio Emilia, ma non solo, sono disegnate con un tocco leggero, utilizzando una penna estremamente temperata che lascia un segno sottilissimo e straordinariamente sicuro, da grande esperto.

De Prospectiva pingendi – cod. C. 307 Biblioteca Ambrosiana, Milano

Nell’epistola dedicatoria del Libellus de quinque corporibus regularibus  (di cui parleremo tra poco) al giovane duca di Urbino Guidobaldo, Piero ricorda di aver donato il suo testo sulla Prospettiva al duca Federico da Montefeltro. Questo particolare è decisamente importante in quanto ci conferma che l’opera deve essere stata terminata ben prima del 1482, anno di morte del duca. Nell’esemplare della Biblioteca Ambrosiana di Milano, cod. C. 307 inf., al foglio 41v è presente una iniziale, non completata, decorata con una candelabra azzurra sormontata da un’aquila ad ali aperte, simbolo araldico dei Montefeltro, rimasta solamente disegnata. È noto che Federico non desiderava nella sua biblioteca testi in volgare, tanto è verro che il Nostro, prima di donarlo al duca, lo fece tradurre in latino dall’amico Matteo di ser Paolo D’Anghiari. Quindi, è praticamente certo, che l’esemplare milanese era quello in possesso di Federico Montefeltro. Una rara eccezione, ma ovviamente più che comprensibile, è la Divina Commedia di Dante illustrata, presente in volgare nella biblioteca del signore.

A proposito di traduzione in latino, il nostro Piero doveva ben conoscerlo ed essere in grado di capire anche un testo di carattere scientifico, comprenderlo puntualmente e trarne immagini appropriate. Alla Biblioteca Riccardiana di Firenze c’è un suo manoscritto in cui trascrive e illustra con figure un vero e proprio corpus di trattati di Archimede, contrassegnati da rubriche che ne indicano i titoli, tradotto in latino da Jacopo da Cremona su incarico di papa Niccolò V, di cui vediamo qui due pagine.

Il suo terzo trattato è il Libellus de quinque corporibus regularibus, il primo studio rinascimentale in cui vengono studiati dei poliedri con la relativa costruzione e i modi di calcolo in forma stereometrica. Il manoscritto è il codice Vaticano Urbinate Latino 632, conservato alla Biblioteca apostolica vaticana, redatto da un copista, ma corredato da correzioni e aggiunte con 174 disegni autografi dello stesso Piero e come detto, è dedicato a Guidobaldo da Montefeltro. Il testo è intitolato ai poliedri regolari, ma è una raccolta di problemi che vanno dalla geometria piana a quella solida, suddiviso in quattro libri, con difficoltà crescente. Geometria piana nel primo, mentre nel secondo e terzo sono contemplati i cinque solidi regolari: tetraedro, esaedro, ottaedro, dodecaedro e icosaedro (a 20 facce) con casi di inscrizione nella sfera. Poliedri semiregolari sono nel quarto libro, nonché altre problematiche tratte da Archimede. Il Libellus è originale in quanto affronta dei problemi particolari attraverso l’uso dell’algebra, con una attenzione a figure che sono affrontate dalla alta matematica e dalla filosofia. La novità assoluta è la costruzione dell’icosaedro nel cubo, mai riscontrato in precedenza, infatti il disegno viene ripetuto due volte e nella seconda è al centro della pagina. Questo testo però ci è noto in volgare, come parte del De divina proportione di fra Luca Pacioli, compaesano di Piero, che lo pubblicò nel 1509 come propria opera, senza menzionare minimamente Piero. Un vero e proprio plagio, già denunciato cinquant’anni dopo dal Vasari. Al testo del Pacioli per i disegni ha collaborato lo stesso Leonardo da Vinci predisponendo una serie di suoi schizzi, poi eseguiti da un pittore lombardo.   

Poliedri dagli schizzi di Leonardo

Nel proemio del testo: “…Petri burgensis pictoris prohemium…quod in hoc ultimo aetatis meae calculo, ne ingenium inertia torpesceret, in mathematica de quinque corporibus regularibus…” il pittore, ormai quasi cieco, ci offre un momento di tenerezza nel prendere atto di essere ormai anziano e, in quel che resta del suo tempo, per niente si lascia intorpidire nella mente, ma persegue con  convinzione e sicurezza le leggi del bello e dell’armonia, tramite la matematica e la misura delle proporzioni che determinano l’ordine del creato.

Ed è proprio da questa armonia che si sviluppa la straordinaria sensazione di misurata bellezza, che si percepisce al primo incontro con quel superlativo capolavoro che è la Flagellazione, un assoluto e preciso equilibrio di rapporti proporzionali e compositivi.

Il dipinto offre ed invita ad una osservazione lenta, pacata ma puntuale e, pur osservando i particolari, non si perde mai la visione d’insieme: ogni componente del dipinto, personaggio od elemento architettonico è inserito con estrema attenzione e sulla base di rapporti geometrici precisi con l’applicazione della “sezione aurea” nelle varie proporzionalità. L’equilibrio tra i pieni ed i vuoti, tra le verticali e le orizzontali, creano la sensazione di un teorema che si fa espressione di una misurata bellezza. Piero adotta una prospettiva centrale, che lega tutte le parti in stretto rapporto formale, il punto di fuga è esattamente alla metà della larghezza della tavola e, dal basso, ad un terzo esatto dell’altezza. Ma Piero evita le precise simmetrie, lo spazio che dedica alla scena, che dà il titolo ufficiale al dipinto ed è posta in secondo piano, occupa uno spazio leggermente più ampio di quello riservato ai tre personaggi che campeggiano invece nel primo piano a destra sul fondo del cielo azzurro, mentre le piccole nuvole e le piante danno un lieve tono naturalistico all’insieme. 

L’altro elemento fondamentale del dipinto è la luce che si espande ovunque: immutabile, priva di “orario”, è e rimarrà sempre inalterata, tersa, mai tragica. Appena percettibili ai piedi dei tre personaggi le ombre, che non possono mancare per mantenere realtà visiva alla scena e poco dietro l’ombra del Palazzo sulla piazza. Questa corrisponde alla piazza maggiore di Urbino negli anni in cui Piero vi soggiornava, quando il Palazzo ducale doveva essere ancora completato. A destra del loggiato con la Flagellazione abbiamo: lo spigolo del palazzetto della Jole, che costituirà il nucleo originario del Palazzo, costruito da Luciano Laurana dal 1466 al 1472, dietro, con le piante alle spalle, il muro del castellare detto “murum sale vecchie” che si affacciava sullo strapiombo a valle e che sarà poi abbattuto, il campanile della vecchia Cattedrale romanica poi sostituita dal Duomo e, col tetto sporgente e l’asta alle finestre, il rosso Palazzo del Podestà. Questi dati sono estremamente significativi, quali punti di riferimento realistici, ma anche per la datazione dello stesso dipinto, che si collocherebbe così, concretamente, nella seconda metà degli anni Sessanta, a dispetto delle datazioni più disparate o direi disperate, che sono state proposte. Analizzando l’architettura, misurata si può dire millimetro per millimetro, tutto esprime il totale controllo di un ambiente, a precisa misura umana, ma che non interferisce con quanto accade. La loggia, dove si svolge il supplizio, è decisamente classica, introdotta da due colonne scanalate e rudentate, con capitelli ionico-corinzi.

Il pavimento è suddiviso da larghe strisce di marmo bianco che compongono grandi quadrati con altre piccole piastrelle rosse di cotto al loro interno. Dopo le colonne, riscontriamo un gioco di varianti geometriche bianche e nere non a semplice scacchiera, ma con una stella centrale per scomparto, ben visibile nella pianta d’insieme. Nello scomparto con il Cristo alla colonna un solo grande cerchio nero.

Il soffitto a lacunari è suddiviso a scomparti da architravi con linee orizzontali che ne sottolineano l’andamento, al loro incrocio al centro due piccole borchie a punta rovesciate, le specchiature sottostanti sono accentuate dalla colorazione nera, ma non è il nero compatto del pavimento, presenta delle varianti, con delle puntinature rossastre, mentre nelle pareti quella a sinistra ha delle venature marmoree e quella a destra delle macchiature grigio scuro, onde determinare una continua variazione. Nelle pareti si aprono due porte, con raffinati sovrapporta di marmo.

 Sul capitello della colonna alla quale è legato il Cristo è collocata una piccola statua dorata di Elios, che nella mitologia classica è la personificazione dell’astro solare, che infatti tiene nella mano, e quindi simbolo stesso della luce. Un effetto luminoso è collegato anche a Gesù, che intorno alla testa presenta un alone più chiaro e più giallo, indubbiamente più pronunciato in passato e purtroppo quasi cancellato da incauti restauri. La luce di queste due entità ha, come conseguenza, il fatto che il riquadro del soffitto sopra di loro è completamente illuminato, ben diverso dagli altri che sono più in ombra ed hanno anche ombre proiettate. Questa variante nella regolarità luminosa, il collegare aspetti pagani con quelli cristiani, lo sfalsare i momenti storici, l’inserire puntuali riferimenti alla realtà della città di Urbino, permette di comporre un insieme di elementi che, se da una parte inseriscono nel dipinto aspetti lievemente stranianti, dall’altra ne accentuano le possibili letture simboliche, da qui l’inevitabile fascino di questa opera unica e straordinaria.

Ecco perché Piero, ben conscio di ciò che ha realizzato, la firma in modo più che evidente: sull’alzata del primo gradino dove siede Pilato scrive: OPUS PETRI DEBURGO S[AN]C[T]I SEPULCRI, questa firma costituisce l’unica certezza di questo capolavoro e la conferma dell’autografia.

L’ambiente del Palazzo di Salomone, nel ciclo di affreschi con la Leggenda della Vera Croce ad Arezzo, presenta la medesima struttura, ma in quest’ultima osserviamo un taglio più abbreviato e schematico ed un effetto compatto, mentre nella Flagellazione si evidenzia decisamente un passaggio ad una misura più ritmata e matematicamente misurabile, ad un uso della prospettiva più articolato, nonché un gusto nei particolari, anche semplicemente decorativi, più raffinato, meno essenziale e finalizzato ad una maggiore sensibilità pittorica. Va comunque tenuto conto, anche, della diversa tecnica pittorica. Negli affreschi, abbiamo come una via di mezzo tra le due opere, ed è la raffigurazione di una Annunciazione nel registro in basso della parete centrale, che ovviamente è uno degli ultimi episodi dipinti. Qui vediamo una maggiore attenzione ai particolari dell’architettura, nei capitelli, nei pannelli della porta, nelle macchiature nelle parti scure delle trabeazioni e pareti o, particolare molto interessante, nel gioco prospettico dei parallelepipedi della parete alle spalle della Madonna, che guarda caso ritroviamo nella Flagellazione nel muro del castellare detto “murum sale vecchie” alle spalle del personaggio giovane e biondo, seppur con una diversa geometria. Questo ci conferma, per la Flagellazione, una fase sì successiva, ma non di molto rispetto agli affreschi di Arezzo che terminano entro 1466, a conferma della datazione sopra ipotizzata.

Una particolarità dell’Annunciazione è che l’Angelo tiene in mano una palma, fatto insolito, nel duplice valore di palma del martirio (di Cristo sulla Croce) e palma della vittoria (di Costantino su Massenzio). Infatti corrispondente a questo episodio abbiamo alla destra della stessa parete il Sogno di Costantino in cui l’imperatore sogna un angelo che gli mostra una Croce, il simbolo nel segno del quale sarà vincitore. Due angeli che recano gli annunci dell’intervento divino nella quotidianità.

Sogno di Costantino

Ora, se analizziamo i personaggi della Flagellazione, la questione si fa molto complessa e ricca di una considerevole serie di ipotesi. Abbiamo tre personaggi in primo piano e cinque nel secondo, di questi ultimi: tre sono certi, Gesù che subisce la flagellazione e i due carnefici. Sugli altri abbiamo dei dati di fatto visivi che possono offrire delle identificazioni, ma, ovviamente, nessuna certezza. Lasciando perdere una cospicua serie di ipotesi fantasiose e prive di riscontri documentali o storiche, si possono riassumere in tre le tipologie di interpretazioni attualmente considerate degne di attenzione. Stando a Roberto Longhi la piccola tavola potrebbe essere una celebrazione della dinastia dei conti di Montefeltro, legata alla commemorazione di Oddantonio, ucciso in una congiura nel 1444 e raffigurato nel giovane biondo e scalzo, a cui succede Federico, ritenuto il committente del dipinto e da identificarsi, invece, con il personaggio con l’abito di broccato, all’estrema destra. La flagellazione sarebbe una allusione al sacrificio del giovane. La seconda tipologia interpretativa, che vede in particolare E. Gombrich e C. Bertelli come sostenitori, accantona la lettura storica e propone una serie di riferimenti allegorici all’esegesi biblica ed a riflessioni teologiche. La terza lettura si lega alla situazione della Chiesa Cattolica intorno alla metà del Quattrocento che, considerando l’avanzata dei Turchi, era alquanto problematica ed in tal senso si lega al tema di fondo degli affreschi di Piero ad Arezzo con le Storie della Vera Croce. È la lettura più condivisibile, sia in base ai dati figurativi, sia storici, iniziata da Kennet Clark e Carlo Ginzburg, ma soprattutto sviluppata da Silvia Ronchey, autorevole studiosa della civiltà bizantina, nel suo libro L’enigma di Piero del 2006.  Infatti, nel 1439 a Firenze si tiene un Concilio la cui finalità era quella di unire le Chiese d’Occidente e d’Oriente.

È presente lo stesso imperatore cristiano orientale Giovanni VIII Paleologo, ben riconoscibile in quanto seduto con le insegne della sua dignità, puntualmente riconoscibili: il cappello a punta, la veste ed in particolare le pantofole entrambe purpuree, che assiste alla flagellazione quale segno del grave pericolo a cui erano sottoposte la cristianità e Costantinopoli (l’antica Bisanzio), sottoposte a flagelli quanto il Cristo alla colonna. Il personaggio di spalle, che assiste al supplizio, indossa un turbante in testa ed il tipico caftano stretto in vita, praticamente anonimo, per giunta è in ombra rispetto agli altri, confondendosi così con l’ambiente piuttosto che acquisire risalto. In lui va riconosciuto il Sultano Mehmet II che è, per giunta, a piedi nudi, come i due carnefici, ma a significare che non ha ancora conquistato l’impero, questo accadrà nel 1453. Un dato significativo, che coinvolge il nostro Piero direttamente, è che nel 1439 era a Firenze con Domenico Veneziano, come detto all’inizio del nostro percorso, quindi senz’altro testimone diretto di quel clima straordinario che la città  visse. A dimostrazione di questo è la sua stessa pittura, come quella di altri suoi colleghi presenti in città, nella quale ritroviamo dei personaggi con abiti ed in particolare cappelli, inusuali, ma molto importanti nella ritualità bizantina. Esempi li abbiamo nel Battesimo di Londra o negli stessi affreschi

della Vera Croce, dove ritroviamo l’immagine di Giovanni VIII Paleologo riproposta quale personificazione di Costantino, che nel segno della Croce vince la battaglia contro Massenzio. Negli affreschi del Corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici Riccardi incontriamo il mago orientale Giuseppe, patriarca di Costantinopoli. Molto importanti sono i disegni di Pisanello, l’unico artista che aveva ricevuto l’incarico ufficiale di ritrarre l’imperatore Giovanni VIII. Dal ritratto dal vero è stata poi modellata la medaglia commemorativa.

Nel proscenio, a destra della Flagellazione, siamo già in una fase temporale successiva, nel 1459, quando papa Pio II riunisce un vertice a livello internazionale a Mantova, nel vano tentativo di organizzare una crociata contro i turchi. Alleato del papa, in questa iniziativa, era Ludovico Gonzaga, che aveva, tra l’altro, rapporti di parentela con gli imperatori bizantini.

Artefice dell’incontro il cardinal Bessarione, personaggio chiave in questi rapporti internazionali. Monaco ortodosso basiliano, presso Gemisto Pletone studiò filosofia platonica e svolse un importante ruolo di diplomatico nella corte imperiale d’Oriente. Arcivescovo di Nicea, su nomina imperiale, fu tra i maggiori fautori del dialogo ecumenico nel Concilio di Firenze (iniziato a Basilea e proseguito a Ferrara) dove pronuncia un’appassionata Oratio dogmatica pro unione per l’unità delle due Chiese, quella orientale greca, copta e armena con quella cattolica romana. Unione che rimase solamente nei propositi. Eletto cardinale da papa Eugenio IV col titolo dei Santi XII Apostoli, trovando a Costantinopoli un clima avverso a lui, viste le sue posizioni, tornò in Italia definitivamente e fu sempre attivo nell’ambito diplomatico. Si impegnò nell’ospitalità delle personalità della grande cultura bizantina, cercando di salvare il più possibile il grande patrimonio librario non solo bizantino ma anche italiano; il 31 maggio 1468 donò la propria significativa biblioteca alla città di Venezia, costituendo così il fondo iniziale della Biblioteca Nazionale Marciana e così scrive al Doge Cristoforo Moro: “I libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi, delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti, ponendole sotto gli occhi della nostra memoria, cose remotissime…Se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti e senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine”. In un piccolo trattato “La natura e l’arte”, Bessarione rivela la sua particolare capacità di saper conciliare anche gli opposti, il suo maestro Pletone era un fiero sostenitore di Platone ed anti-aristotelico, ma Bessarione aveva assorbito lo spirito umanista ed anche quella particolare cultura che la teologia e la filosofia medioevale avevano determinato, in specie attraverso il pensiero di Tommaso d’Aquino, che si basa su Aristotele, così il cardinale imposta una forma di concordia ed armonia tra Aristotele e Platone. Si rivela una mente dai percorsi rigorosi e dalle analisi taglienti, capace di dominare l’alta qualità teorica di un dibattito e confronto, dimostrando un atteggiamento intellettuale aperto e creativo, che getta ponti tra elementi apparentemente inconciliabili. Una personalità che, sono convinto, intrigava molto il nostro Piero. Il Bessarione dovrebbe essere la figura col cappello nero all’orientale e la barba biforcuta, che porta sotto il mantello la tonaca nera da monaco. Particolarmente eleganti i suoi morbidi stivali.

Il cardinal Bessarione di P. Berruguete

La fisionomia corrisponde bene al ritratto che Pedro Berruguete esegue nel 1476 su disegno di Giusto di Gand, per lo studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo di Urbino ed ora al Louvre, pur avendo i capelli e barba ormai bianchi. Pur statico nella posa, Piero lo dipinge con lo sguardo fisso al personaggio all’estrema destra e con la mano sollevata, rimarcando così, un colloquio in corso. Chi è il personaggio con il ricco abito di broccato a cui si rivolge il Bessarione? Qualcuno suggerisce Giovanni Bacci, il committente degli affreschi di Arezzo, ma la Ronchey vi riconosce il duca Ludovico Gonzaga, che ospita l’incontro internazionale col papa, e come suggerisce lo stesso abito, la ricchissima “pallanda”, con allusioni araldiche gonzaghesche. Ma in particolare i capelli corti e la fisionomia corrispondono al busto in bronzo, ritratto sicuro del duca Ludovico, conservato al Museo Bode di Berlino, ma, non di meno, anche alla placchetta di Pietro da Fano.

Chi è, invece, il giovane al centro che dà la netta impressione di essere come assente, distaccato, chiuso in un proprio mondo circoscritto? Anche qui e più che condivisibile il parere della Ronchey, che profonda conoscitrice del mondo e del cerimoniale bizantino, vi riconosce l’ultimo rappresentante della famiglia imperiale Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII. Nelle narrazioni è descritto biondo con gli occhi azzurri, veste la porpora, ad esclusivo uso degli imperatori appunto, ma è scalzo, a piedi nudi, in attesa della possibilità di indossare le pantofole purpuree. È scalzo perché “spogliato, profugo, nudo, rivestito solo dei suoi natali”, dice la Ronchey, giungerà in Italia nel 1460, sconfitto, bisognoso di aiuto ed in particolare in attesa di riconquistare il titolo imperiale. E questo aspetto Piero lo sottolinea nel riproporre in lui quasi la stessa identica posa del Cristo flagellato, nel reggersi sulla gamba destra, mentre la sinistra è piegata in avanti, il gomito sinistro sporge, identità di situazione negativa.

In particolare, il volto ci ricorda le espressioni dei tre angeli, testimoni nel Battesimo, nonché degli angeli della Pala Montefeltro a Brera o della Madonna Di Sinigallia. In tutti, uno sguardo verso chi osserva il dipinto, intenso ma interiorizzato, come di un colloquio muto, ricco di significati, che rimangono come sospesi, in attesa di chiarimento.

A confermare l’aspetto dell’incontro, della riunione, dell’attesa di importanti eventi, era una scritta che si trovava sulla cornice originale o sulla base del dipinto, purtroppo andata persa, che ci venne riportata da Johann David Passavant, pittore tedesco del primo Ottocento, ma soprattutto conoscitore d’Arte con una grande passione per Raffaello. In visita ad Urbino, si interessò non solo di Raffaello e del padre Giovanni Santi, ma anche di un pittore piuttosto sconosciuto, di cui a Firenze aveva visto i due bei ritratti del duca Federico di Montefeltro e della consorte Battista Sforza, un certo Piero detto “dei Franceschi” o “della Francesca”, che abitò nel 1469 da Giovanni Santi in quella città. Nel Duomo vide una piccola tavola che la tradizione diceva donata dal duca Federico, la descrive con un Cristo alla colonna davanti a Pilato ed in primo piano tre gentiluomini, uno dei quali vestito sfarzosamente di seta e d’oro, dipinto alla maniera olandese. Dice poi che accanto a loro c’è scritto “Convenerunt in unum”, e che la tavoletta “eseguita con tanta delicatezza, porta ancora oggi l’iscrizione: OPUS PETRI DE BURGO SANCTI SEPULCRI”.

Quel “Convenerunt in unum” ci conforta nel significato generale che acquista la Flagellazione come rivisitazione politico-allegorica con i riferimenti ai Concili di Firenze e Mantova, se non addirittura come possibile titolo dell’opera stessa. Infatti, la scritta si riscontra nel versetto del secondo Salmo, ripreso dagli Atti degli Apostoli (4,2,27) con riferimento alla passione di Cristo: “Adstiterunt reges terrae, et principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum ejus. Convenerunt enim vere in civitate ista adversus sanctum puerum tuum Jesum, quem unxisti, Herodes, et Pontius Pilatus, cum gentibus, et populis Israel” (Si sono sollevati i re della terra e i principi si sono radunati contro il Signore e contro l’Unto suo. In questa città, infatti, contro il tuo figlio santo Gesù, Erode e Ponzio Pilato si sono messi d’accordo con le nazioni e il popolo d’Israele). In latino “convenire” significa tanto radunarsi, quanto mettersi d’accordo, in unum: nello stesso luogo. Ecco ulteriormente puntualizzato il possibile significato.

Nella Flagellazione possiamo individuare anche una presa di coscienza che dal 1453 con la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, il mondo è cambiato probabilmente per sempre. Il senso di inquietudine che traspare, i perché in sospeso, l’incapacità di reagire da parte delle corti europee, o forse anche un certo senso di colpa, prendendo atto che ben poco era stato fatto per sostenere l’imperatore bizantino. Tutto questo aleggia nel dipinto, ed è come in contrasto con la sua straordinaria puntualizzazione dei singoli componenti, della logica prospettica e di misura che sostanzia la sua pittura. Il racconto delle disavventure e delle lotte di potere umane, attraverso la limpida struttura della geometria e della luce. Un linguaggio inoppugnabile per il mistero della vita.        

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ALTARE DI ISENHEIM di MATTHIAS GRÜNEWALD

Corrado Mauri

La rivelazione della straordinarietà dell’Altare di Isenheim, un Polittico a più pannelli, avvenne per me nel febbraio del 2005, in occasione di un viaggio in Germania ospite, con Marina, della carissima amica Gerarda a Bad Grozingen, dove viveva sua madre. Il giorno successivo al nostro arrivo Gerarda ci portò a Colmar al Museo d’Unterlinden per visitare questo capolavoro. Dire che fu una “botta d’emozione” è dire veramente poco, un turbine di vari stati d’animo si susseguirono senza tregua per tutto il tempo della visita, dopo e sempre. Personalmente ho un controllo emotivo alquanto spiccato, che però si accantona in certe occasioni come difronte agli affreschi con le Storie della Croce di Piero della Francesca in S. Francesco ad Arezzo, nella Cappella Sistina o alla “Giuditta e Oloferne” del Caravaggio, giusto per fare qualche esempio. Ovviamente da tempo conoscevo ed avevo letto su questo artista, ma l’impatto con l’opera è stato fulminante e determinante, tant’è che la riproduzione con le ante apribili che acquistai nell’occasione, è sempre rimasta esposta nelle mie librerie, unica, nessun’altra riproduzione ho mai tenuto in vista e tantomeno per una possibile motivazione religiosa, in quanto sono non credente.

Attuale presentazione del Polittico, a pannelli aperti, nel Museo Unterdelinden a Colmar
S. Sebastiano, Crocefissione, S. Antonio Eremita e predella con Compianto sul Cristo morto
Alla prima apertura: Annunciazioe, Concerto degli angeli, Natività, Resurrezione
Alla seconda apertura: Conversazione tra S. Antonio Eremita e S. Paolo di Tebe Eremita, sculture: S. Agostino, S. Antonio Abate ed Eremita in trono, S. Gerolamo. Tentazioni di S. Antonio Abate. Predella con Gesù e gli apostoli

Dalle tre immagini e relativi titoli risulta evidente la complessità di questo Polittico di cui, purtroppo, siamo praticamente privi di documentazione storica, ma l’enorme problema è che altrettanto accade per il suo autore. Il suo stesso nome si ottiene per deduzione. Tanto è straordinaria questa complessa opera, altrettanto difficoltosa la sua vera ed autentica comprensione, ancora oggi. Non è mia intenzione fare la storia del continuo dibattito, ormai secolare, tra le varie categorie che si sono occupate e si occupano del Polittico, storici, storici dell’Arte, religiosi, teologi ecc.., ma compiere una lettura prettamente pittorica.  È uno storico dell’Arte del seicento olandese, Joachim von Sandrart che nel suo scritto Teutsche Academie (L’Accademia tedesca delle nobili arti dell’architettura, della scultura e della pittura, pubblicato nel 1675 e 1680, in cui tratta le biografie di artisti olandesi e tedeschi) il primo che raccoglie notizie sul Grünewald, con scarsi risultati e tentando di rintracciare e vedere più opere possibili.

Nel secondo ottocento le ricerche e gli studi si moltiplicano, col novecento la sua figura assume, giustamente, rilevanza notevole, ai vertici dell’Arte Tedesca, non più come imitatore o seguace, ma come rivale del Durer, anche se permangono più le ipotesi che i dati di fatto concreti. Le pochissime citazioni che portano e fanno pensare a lui hanno ben quattro nomi diversi: Matthias Grünewald, Meister Mathis, Mathis Gothart Nithart e Mathis Grün. Mettendo insieme le notizie relative ai nominativi non è possibile ricostruire una sequenza storica della vita dell’artista, di un apprendistato presso un qualche maestro, di una sua possibile bottega o allievo, ma in particolare nessuna commissione documentata. Qui sopra un disegno attribuitogli con buona approssimazione e che si ritiene un autoritratto, tiene in mano una specie di penna e guarda in alto come in cerca di ispirazione. La fisionomia è ben marcata: occhi chiari, volto quadrato di un uomo nel pieno della maturità. Purtroppo il disegno presenta gravi alterazioni e ripassature come le scritte ed il monogramma MG, Mathias Grünewald, aggiunto successivamente. Incerto il suo luogo di nascita, forse Wurzburg o Aschaffenburg in Baviera, mentre per la data si va per deduzione sulla base delle prime opere, dovrebbe aggirarsi intorno al 1475-80. L’artista all’attività di pittore affianca quella di ingegnere idraulico, realizzando la fontana del Castello di Bingen nel 1510 su ordine del Capitolo di Magonza. Dal 1511 risulta pittore di corte e consigliere artistico dell’Umanista Uriel von Gemmingen, Arcivescovo di Magonza, per il quale progetta ed esegue un camino monumentale nel Castello di Aschaffemburg. Dal 1514 lavora per il successore dell’Arcivescovo Gemmingen, il cardinale Alberto di Brandeburgo (nel 1516 c’è una richiesta di salario come Magister Mathis Gothart pictoris) per cui rimane in carica sino al 1526 quando si interrompono improvvisamente i pagamenti, si suppone a causa delle lotte contadine e di sue simpatie per la dottrina luterana. Tra le pochissime certezze c’è una testimonianza di tre Consiglieri di Francoforte che ne annunciano la morte nel 1528. Nell’inventario dei suoi beni oltre ad utensili vari c’era una cassetta “saldamente inchiodata” che conteneva un testo del Nuovo Testamento, 27 prediche di Lutero rilegate, altre carte luterane, 12 articoli della fede cristiana con richieste dei contadini in rivolta, libri di conto di una miniera, delle patenti di nobiltà e anelli d’oro. Inoltre possedeva un guardaroba sfarzoso ed erano presenti, nei locali, due sportelli d’Altare, uno solamente disegnato. Per quanto riguarda la sua famiglia risulta avesse un figlio adottivo, Endres Nithart (figlio adottivo di Grü), e che fosse sposato, ma pare non molto felicemente. Tra le tante ipotesi fatte, quella che la moglie fosse una sua modella, magari rimasta immortalata in qualche suo disegno. Cominciamo perciò proprio da alcuni di essi che ritraggono delle donne e per iniziare a prendere confidenza con il suo stile.

Immediata la constatazione che siamo difronte a copie dal vero di donne popolane. Una congiunge le mani in preghiera esprimendo nel volto una dolce concentrazione. Tra l’altro è forse l’unico disegno che ha una firma autentica sul lato sinistro del foglio al centro a matita (“[M]athis”) e altre scritte non autografe. L’altra con un turbante, anche lei colta in un fuggevole momento espressivo quasi sorridente. La qualità dei disegni è notevole: un segno sicuro e determinato, privo di qualsiasi titubanza, ma eccezionalmente sensibile alla luce, un segno decisamente pittorico, che passa da una linea sottilissima, presente anche sopra alla morbida sfumatura nel volto della donna che prega, ad una linea netta e forte che determina l’ombra e l’andamento delle pieghe, ma che scompare sottilmente nei punti di luce. Identica modalità anche negli altri due splendidi disegni, il secondo sul retro dello stesso foglio, chiari studi per qualche figura forse religiosa, probabilmente una Maddalena.

Una figura pensosa, come in meditazione, gli occhi che guardano nel vuoto, in alto, spinta da un turbamento che si concretizza nelle mani strette in cerca di un qualcosa di certo e di consolante. Mani che sono di un realismo assoluto, che lavorano, che pensano. Sul retro la stessa donna si trasforma, ecco che l’artista, studiata ed assorbita la realtà, ora rielabora, accentua, trasforma, scioglie i capelli, compaiono delle lacrime, le labbra si piegano lievemente in basso e l’espressione diventa più patetica, ma sono le mani che cambiano completamente, non più la contadina, ma quasi da…musicista, dalle dita affusolate che si intrecciano senza forza, la tensione si sta scaricando, dietro le mani c’è il vuoto, uno scuro che assottiglia le dita e va oltre. Ecco quando alla notevole capacità tecnica si accompagna l’idea: il percorso della creatività va libero alla sua meta, cercando e incontrando. Come datazione dovremmo essere intorno agli stessi anni dell’Altare di Isenheim, 1512- 16, quindi indubbiamente si tratta di studi relativi a quest’opera. Anche in un altro splendido disegno, tutto questo si fa ancora più evidente: i lunghi capelli sono sciolti e variano sapientemente con la luce, con quelle singole ciocche sottili e lunghe, che giocano anche con le ombre e smorzano, nella loro verticalità, la rotondità del volto. Questo studio, molto attento e puntuale, è in funzione della figura della Madonna, che viene sostenuta da S. Giovanni nella Crocefissione. Stessa inclinazione del volto che esprime contrizione e dolore, praticamente identiche le mani, che si stringono forte e non unite come per la preghiera, sono mani di dolore, chiuse in sé. Un’altra sua particolarità che riscontriamo in questi disegni è nelle braccia, nei continui cerchi delle strette pieghe della stoffa che si concentrano e variano in continuazione verso il basso o l’alto, una caratterizzazione personale, cioè lo sviluppare costantemente un motivo che piace. In tutti questi disegni le notevoli modalità esecutive sono praticamente identiche a confermarne, quindi, la stessa autografia. Il Nostro si serve della stessa modella, come si evidenzia nelle chiare affinità fisionomiche riscontrabili nelle donne di questi disegni. Pensare che sia la moglie viene alquanto naturale, ma rimaniamo sempre nel campo delle ipotesi.

Analizziamo ora le pitture dell’Altare, ma vediamo prima chi sono i committenti (gli Antoniani) ed il luogo per cui viene eseguito. L’Ordine degli Antoniani nasce in Francia nel 1095 a S. Antoine en Dauphinois come confraternita laica, la cui vocazione principale è la medicina e fonda un ospedale con l’aiuto di medici e chirurghi, anche estranei alla stesa confraternita con l’approvazione di papa Urbano II. Curano l’epilessia, la sifilide, ma in particolare il “fuoco sacro”, malattia legata strettamente a S. Antonio Abate tanto da assumere correntemente il nome di “fuoco o male di S. Antonio”, espressione sempre respinta dagli Antoniani. Il “fuoco infernale”, l’erpes zoster o ergotismo canceroso o convulsivo, è una malattia provocata da un fungo della segale cornuta, della quale in quei secoli si faceva grande uso, e l’Europa centrale era funestata da frequenti epidemie. Questo male si manifesta con la sensazione di bruciore nel corpo e di freddo nelle estremità. I piedi e le mani toccati dalla cancrena, marciscono e si distaccano dal corpo. Al di là delle invocazioni a S. Antonio Abate quale santo protettore, tra i medicamenti usati figura un balsamo, di cui si è persa la ricetta precisa, composto da erbe officinali, da grasso di maiale, animale fedele al santo, come emolliente, e da vinsanto esposto alle ossa del santo per acquisire potere miracoloso. Gli Antoniani sono stati i medici dei papi, tant’è che nel 1218 papa Onorio III riconferma con bolla la prima approvazione e nel 1297 una bolla di Bonifacio VIII erige la Confraternita in Ordine canonico, sottomesso alla regola di S. Agostino ed i priorati con ospedali si uniscono in Abbazie. L’afflusso dei pellegrini e degli ammalati, attirati anche dai successi medici, necessitano di mezzi finanziari importanti, dal XII sec. le collette per i “Messaggeri di S. Antonio” diventano sistematiche, come l’offerta di maiali al Santo, un’altra fonte importante di reddito, sancita addirittura con una bolla papale.

Schongauer, Madonna nel roseto

Tra i numerosi conventi la Chiesa Prioria di Isenheim era la Casa Madre, fondata nel XIII sec., e aveva alle sue dipendenze gli ospedali di Basilea, di Strasburgo e di altre località tedesche.  Benché il Convento facesse parte del Sacro Impero Germanico, i precettori, spesso uomini di grande reputazione, erano francesi come Jean Bertonneau, consigliere del re di Francia e dei duchi di Borgogna, Jean Orlier, d’origine savoiarda, che dopo essere stato Precettore a Ferrara sino al 1460, lo diventa ad Isenheim sino al 1490. Questi fece eseguire opere molto importanti tra cui una Pala d’altare dipinta da Martin Schongauer nel 1473, per la chiesa di S. Martino a Colmar, tutt’ora presente, con la “Madonna nel roseto” che presenta chiari stilemi fiamminghi. Interessante la cornice policroma e scolpita con angeli musicanti e racemi tipicamente gotici. La presenza della scultura ci porta al fatto che lo stesso Orlier è il primo committente delle parti scultoree del nostro Polittico e praticamente ne è il possibile ideatore. Quindi esse sono anche le prime ad essere progettate ed eseguite e costituiscono la parte ultima delle due aperture del Polittico, di cui rimarcano anche la dedicazione precisa a S. Antonio Abate ed Eremita. Il successore di Orlier, l’Abate Guy Guers, che rimane in carica sino al 1516, prosegue l’opera di abbellimento dell’Abbazia, revisiona il progetto delle sculture del Polittico e lo fa collocare sull’altare principale; dal 1511 commissiona tutte le parti pittoriche dell’Altare al Grünewald. È alquanto difficile capire quanto il Guers abbia contribuito all’elaborazione della complessa simbologia iconologica dell’intero Polittico, ispirata alle Sacre Scritture ed ai testi teologici medioevali, ma indubbiamente il suo intervento deve essere stato rilevante.  In tal senso, oggi ci si chiede come mai viene prodotta un’opera di tale valore ed importanza, nonché di straordinaria bellezza, in un luogo che pur sede di un’Abbazia rilevante e di un Ordine potente (tant’è che si permette spese rilevanti per la sua realizzazione), rimane geograficamente periferico ed alquanto isolato, rispetto alle città, anche se il Convento si trovava sulla strada dei pellegrini che si recavano a Santiago di Compostela od a Roma. Ed allora siamo noi oggi, che dobbiamo chiederci che cosa è per noi autenticamente importante, per che cosa viviamo, quali valori contano. In quell’epoca, era determinante, quasi indispensabile, creare queste opere che assumevano in sé tutti i significati e valori religiosi, civili o terapeutici che fossero, erano punto di riferimento: c’erano, esistevano. Era il concorso del popolo che contribuiva in modo determinante alla costruzione delle Cattedrali. Oggi non è più così.  Tuttavia l’importanza del Polittico, che appartiene all’ultima generazione dei grandi polittici tedeschi, rientra senza dubbio anche in una forma di competizione tra i vari Ordini, che rimarcavano così la propria identità e rilevanza. E va sottolineato come, dal medioevo è la religione che gestisce la cura dei malati, dato che non era solo il corpo l’oggetto di cura , ma soprattutto l’anima.

All’inizio abbiamo visto le tre immagini che presentano l’insieme dei pannelli scolpiti e dipinti, ma per capire meglio come sono i movimenti delle varie aperture, ecco l’immagine della riproduzione che acquistai ad Isenheim che evidenzia il movimento delle quattro ante, quella della predella non era come nella riproduzione, ma divisa in due pannelli che scivolavano uno per lato su una specie di rotaia.

Purtroppo, nel corso del tempo e degli spostamenti, si è persa completamente tutta la parte superiore dell’Altare di impostazione prettamente gotica, che raggiungeva un’altezza di quasi otto metri, (tre metri e mezzo è l’altezza delle parti dipinte) e determinava un fascino ed una attrazione visiva molto forte. Ne vediamo, in un disegno, una possibile ricostruzione ed un esempio, ancora integro oggi, nell’Altare principale con l’Incoronazione della Vergine, 1523-6, del Maestro H. L. nella Collegiata di S. Stefano a Breisach, nel Baden-Wurttemberg. Notiamo come in Germania, ma non solamente, permangano ancora degli stilemi e impostazioni gotiche nel terzo decennio del Cinquecento, quando da noi già fioriscono le prime opere manieristico rinascimentali.

Ma iniziamo proprio dalle sculture, cioè dalla prima parte realizzata del Polittico e dallo scultore alsaziano e tardo gotico Nicolas de Haguenau (1460 circa-1538) di cui si hanno scarse notizie, come per Grünewald, e la sua opera più rilevante è questa di Isenheim. Nelle tre nicchie gotiche, ornate da viticci, foglie, uccelli ed in quella centrale anche dai simboli degli evangelisti, abbiamo sculture, in legno di tiglio, policrome e dorate. Al centro, seduto su un trono S. Antonio Abate il cui pastorale ha la Tau, simbolo dell’Ordine degli Antoniani, mentre la mano sinistra regge il libro dell’Ordine. Indossa il suo solito copricapo da eremita con un’espressione come assente, guarda oltre, è colto nella sua essenza di anacoreta. Ai suoi piedi il fedele maialino col marchio degli Antoniti, ed inginocchiati due offerenti, uno con mantello e lunga capigliatura, quindi un probabile nobile, che guarda il santo e offre una specie di ventaglio e un pollo e l’altro un contadino che indica col dito il santo e offre un maialino. Alla destra di S. Antonio abbiamo in piedi S. Agostino, in quanto nel 1298 gli Antoniti hanno adottato la regola monastica agostiniana, ai suoi piedi e rivolto al santo eremita la figura di un Abate, probabilmente ritratto dell’Orlier o del Guers, i due abati committenti dell’Altare (le ricerche sulle fisionomie dei due personaggi non hanno portato all’individuazione di chi sia stato raffigurato). La scultura alla sinistra di S. Antonio rappresenta S. Gerolamo, in quanto autore di una Vita Pauli in cui è narrato l’incontro nel deserto di S. Paolo Eremita con S. Antonio Abate, soggetto del pannello dipinto da Grünewald a sinistra di queste sculture, che analizzeremo più avanti. Da notare le diverse proporzioni di queste sculture che ne sanciscono la relativa importanza, la maggiore ovviamente quella di S. Antonio che è il dedicatario dell’intero Polittico, poi i due santi Agostino e Gerolamo, più piccolo l’abate inginocchiato, ancora più piccoli il nobile ed il contadino, ma questo ha la testa più grossa.

Nella predella, suddivisa in cinque scomparti abbiamo al centro il Cristo benedicente, nelle altre gli apostoli a colloquio tra di loro. Una parte degli storici dell’Arte sostengono che solo il Cristo è frutto della mano di Haguenau, mentre gli apostoli sono di altro scultore, meno capace, il che non mi vede concorde in quanto anche i gruppi dei seguaci di Cristo intrattengono rapporti vivi ed intensi tra i loro componenti. Tutta la parte scultorea si dà per terminata entro il 1505. L’abilità tecnica ed espressiva di Haguenau è confermata da un altro S. Antonio, attualmente al Metropolitan di N.Y.

Rivediamo l’immagine dell’Altare per come si presentava quotidianamente ai fedeli nell’abside della chiesa di Isenheim. A tutt’oggi non è ancora chiara la sequenza storica delle aperture secondo il calendario delle festività o degli eventi possibili. In linea di massima la prima apertura doveva

avvenire alle feste principali: Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Santissima Trinità, Corpus Domini e feste mariane. La seconda apertura ovviamente in occasione delle feste relative ai santi raffigurati, ma credo (mia ipotesi sui dati storici) anche nelle occasioni di eventi o preghiere con la presenza degli ammalati dell’ospedale, viste le qualità taumaturgiche dell’Altare. Quindi normalmente abbiamo esposti quattro pannelli: la scena centrale mostra la Crocefissione, nelle ante laterali a sinistra S. Sebastiano, a destra S. Antonio Abate e nella predella il Compianto sul Cristo morto. Le due ante con i santi rimangono fisse, inamovibili, rimangono coperte, ovviamente, all’ apertura delle ante successive, ma sono simbolicamente fondamentali per comprendere significati e funzione dell’intera macchina. Il contesto ospedaliero è una presenza determinante e possiamo dire moderatore nella lettura dei significati onde evitare interpretazioni troppo teologiche. Siamo in un contesto, appunto, che ha un legame indissolubile con la realtà della malattia e del conseguente dolore fisico, ma anche morale. L’opera, quindi, non va considerata solo per i suoi valori strettamente religiosi, ma anche come mezzo per ottenere il risanamento e la salvezza del corpo, ma anche dell’anima. I due santi ne sono la evidente conferma, infatti S. Sebastiano, martire sotto Diocleziano, viene invocato a protezione dalle peste, in quanto sopravvissuto alle ferite, equivalenti alle piaghe, delle frecce. Ormai scontate le qualità di S. Antonio Abate ed Eremita, che qui si rimarcano anche per la sua maggiore dimensione rispetto a Sebastiano. Entrambi sono posti su dei piedestalli monocromi, che suggeriscono l’idea di statue viventi e che sembrerebbero quasi dei capitelli capovolti in cui si evidenziano delle foglie di vite, quale simbolo eucaristico nel S. Antonio e anche di edera, quale simbolo di fedeltà e devozione, nel S. Sebastiano. Le due basi nella loro impostazione prospettica determinano una precisa dimensione spaziale, che chiude idealmente lo spazio aperto della Crocefissione.

Ancora oggi è ampiamente discussa se l’attuale collocazione delle due ante sia quella giusta e non vada invece invertita, gli argomenti non sono sufficienti ad una soluzione condivisa. Personalmente, sul piano della composizione pittorica, mi convince maggiormente l’attuale combinazione con le due aperture-finestre ai lati esterni, mentre la parte scura si accorda con il buio della Crocefissione, dando senso di continuità ed omogeneità. Semplice l’atteggiamento del S. Antonio che tiene il suo pastorale con la Tau e regge delicatamente il mantello rosso. Una lesena è alle spalle e mentre nella finestra compare un demonio che la sta demolendo, i pezzi rotti cadono, per attaccare poi il santo, un episodio costante nella narrazione della sua vita e che vedremo più avanti nella Tentazione. L’espressione del santo è di assoluta indifferenza rispetto a ciò che sta accadendo.

Anche il volto del S. Sebastiano non riflette dolore, ma calma e sopportazione, parte delle frecce che lo hanno colpito sono già state tolte dal suo corpo, è come in fase di cura, infatti nel cielo in un monocromo trasparente sono raffigurati degli angioletti che reggono una corona per il suo martirio ed un altro che tiene le frecce tolte, un’altra è infilata in una corda intorno alla colonna ed altre due appoggiate alla sua base. Del tutto particolare il gesto delle mani sollevate, una nell’altra, come a sostenere e sopportare, ma anche a fare da controcanto e supporto al gesto indicativo del S. Giovanni Battista nella scena a fianco.

Questa Crocefissione, nell’ambito della intera storia dell’Arte, è indubbiamente la più tragica e potente nella sua espressività sconcertante della sofferenza.

Grünewald ed i committenti non seguono la tradizionale impostazione ed inseriscono importanti novità e variazioni. La più rilevante è la ieratica presenza, per la prima volta, sulla destra, di S. Giovanni Battista, ultimo Profeta della Antica Alleanza e Precursore (che al momento della Crocefissione in realtà è già stato decapitato) che tiene nella sinistra il Vecchio Testamento, scritto a mano, e con la mano destra indica il Cristo, la Nuova Alleanza. Tra il suo braccio ed il volto sono scritte in rosso le parole che sta pronunciando, riprendendo la testimonianza resa sul Giordano nel momento del Battesimo “ILLUM OPORTET CRESCERE ME AUTEM MINVI” (Giov.30,3) ”Egli deve crescere e io invece diminuire”. Ai suoi piedi l’agnello mistico tiene una piccola croce e dal suo petto sgorga il sangue (come il sangue che sgorga dalla ferita nel costato di Cristo) che si raccoglie nel calice, che richiama quello dell’Ultima Cena e la sua valenza eucaristica. In questo lato della Crocefissione avviene il superamento del momento storico a favore del “Mistero” del Sacrificio, al di fuori del tempo reale. Dall’altro lato abbiamo i tre testimoni assoluti del tragico sacrificio, S. Giovanni Evangelista, che rappresenta il Nuovo Testamento, angosciato, il volto teso, che sostiene la Madonna livida, disfatta e sopraffatta dal dolore che si esprime anche nelle mani (come abbiamo già visto). Entrambi formano, anche nella loro inclinazione, un blocco unico. La Maddalena, inginocchiata e con la schiena inarcata, torce il proprio corpo in un gesto di implorazione, volgendo uno sguardo disperato a Gesù, sollevando le braccia e stringendo le mani, ma a dita tese come a trasmettere e lanciare la tensione. Davanti a lei il vaso dell’unguento che annuncia il momento della sepoltura, su cui c’è la data 1515. Sul piano del colore è puntualmente leggibile un altro aspetto che verrà poi sviluppato nella prima apertura: sul cielo che si è fatto buio, nero, privo di stelle, per l’eclisse di sole al momento della morte del Cristo, entro un paesaggio fatto solo di pietre ed un fiume, prevalgono i giochi dei rossi mantelli e dell’aranciato dell’abito della Maddalena sul quale si armonizzano i lunghi capelli biondi leggermente arricciati, unica pausa in questa tragedia, dunque toni caldi in contrasto col bianco gelido del manto di Maria e delle due altre macchie bianche: l’agnello ed il libro sacro, tutti e tre simbolicamente immacolati rispetto al resto. Ma anche nelle dimensioni dei personaggi è evidente una differenza, più piccola la Maddalena, poi gli altri tre partecipanti e più grande il Cristo, a tutta altezza della scena.

La croce è sbozzata rozzamente, con travi montate ad incastro, la scritta INRI è su un foglio fissato ad una tavoletta appesa con una catena ad un chiodo, ben lungi dalle croci dell’Arte italiana quasi sempre prodotti di alta falegnameria e quindi: più simbolo che realtà concreta. Un particolare è decisamente interessante ed è la scarsa altezza della croce, i piedi del Cristo distano 30/40 cm dal terreno, non di più, confermando un dato, tratto da antichi documenti, che le croci erano molto ridotte nella loro altezza, addirittura era possibile che i condannati appoggiassero i piedi sul terreno. Qui apro una breve parentesi su questo aspetto particolarmente intrigante, in cui, grazie ad alcuni dipinti ed in particolare del pittore russo Nikolai Ge (1831-1894) che, laureato in matematica, si dedica successivamente alla pittura, ma con una puntuale attenzione ad una resa realistica di quanto dipinge, anche sul piano della verità storica. Sono decisamente interessanti due sue Crocefissioni, dipinte nella piena maturità, che ci mostrano come nella realtà e molto più verosimilmente erano realizzate le croci per i condannati a morte da parte dei Romani. Croci grossolane, appena sbozzate, a cui i condannati venivano molto più frequentemente legati che inchiodati, subendo poi, una lunga agonia per soffocamento. L’uso della inchiodatura, tra l’altro col particolare della mano che non è fissata alla parte frontale dell’asse orizzontale ma nella parte superiore, è molto raro, ma metodo, probabilmente usato, nei confronti di Gesù, per aumentarne le sofferenze, infatti Nikolai, in uno dei due dipinti, aggiunge un’asse sul terreno onde potervi inchiodare i piedi. In questo senso c’è una foto che Nikolai, si è fatto fare, mentre nudo è legato ad una croce, realizzata nel suo studio, così da poter studiare realisticamente le posizioni e gli effetti. Qui si apre un capitolo enorme sulla realtà storica e sulla veridicità di queste modalità, ma poi, soprattutto, in merito alle reliquie storiche che ci sarebbero pervenute dalla Crocefissione del Nazareno, in quanto numericamente moltiplicate rispetto alla narrazione evangelica, ma non è argomento di questo saggio.

Ma la cruda realtà, appunto, prende il sopravvento nella immagine del Cristo, come del resto era richiesta nelle Andachtsbilder le immagini devozionali che invitavano il credente a concentrarsi sulle sofferenze di Gesù. Qui arriviamo all’apice descrittiva di tali sofferenze. Siamo al momento successivo alla morte del Cristo, le braccia hanno perso ogni resistenza e si sono allungate ulteriormente, il capo si reclina, gli occhi sono chiusi, la bocca livida ha esalato l’ultimo respiro, la grossolana e violenta corona di spine penetra ancora, anche nella carne delle spalle e del busto, la cassa toracica sollevata rivela il soffocamento che ha provocato la morte. Ogni parte del corpo è ricoperta dai segni della flagellazione fatta con rami le cui punte sono rimaste infilzate nella carne, sgorga l’ultimo fiotto di sangue dal costato, anche il perizoma stracciato porta i segni dei colpi.  

Le mani perforate dal grosso chiodo che le ha fissate nella parte superiore della trave, sono rimaste bloccate a dita spalancate per la tremenda tensione di reggere il peso del corpo, i piedi deformati dal peso intorno al chiodo hanno ancora il sangue che sgocciola. Nessun brano di corpo è rimasto intatto, ogni dettaglio esprime il supplizio subito. L’intensità delle lacerazioni sistematicamente distribuite sul corpo davano e danno, ad ognuno il ribrezzo difronte a tale crudeltà e contemporaneamente un’intensa partecipazione non solo emotiva, ma come percepita sulla propria pelle. Impossibile l’indifferenza. E qui dobbiamo immaginarci lo sguardo intenso, commosso, la autentica partecipazione e condivisione del malato che portava sulla sua pelle e nella carne i gravi segni, le pustole delle malattie, sentiva i bruciori e i dolori e nell’immedesimarsi pregava intensamente nella speranza di una guarigione.  

Non possiamo ignorare le altre tre Crocefissioni, che ci sono giunte e create da Grünewald, anche per capire che, di fondo, la tipologia del Cristo di Isenheim non è stata costruita solo per questo Altare, ma è una concezione costante in tutta la sua opera. Nella Crocefissione di Basilea con una datazione, assegnata solamente su basi stilistiche intorno agli anni

1503-10, di piccole dimensioni 73 x 52 cm, è sempre raffigurato il momento dell’ultimo respiro, il Cristo è una chiara anticipazione di tutti i particolari di quello di Isenheim, ma con minore tensione, Gesù è meno isolato, gli astanti gli sono accanto, La Madonna con gli occhi rossi di pianto, le lacrime creano un lungo rivolo bianco,  è di poco più isolata, completamente avvolta nel mantello blu, da cui spuntano solo le mani tormentate e trattenute. Giovanni è proprio accanto a Gesù, stringe le mani e con la Maddalena e Maria di Cleofa fanno blocco unico, anche coloristicamente, e sempre con un attento gioco delle mani in rapporto ai piedi del Cristo. Accanto a Giovanni un soldato con armatura, il centurione romano, che alza il braccio e pronuncia le parole “VERE, FILIUS DEI, ERAT ILLE” (Marco 15,39) “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”.  Una seconda Crocefissione, ora a Washington (61 x 46 cm), segna indubbiamente un passaggio più accentuato verso quella di Isenheim, il dramma si accentua sia nel corpo del Cristo che nell’atteggiamento dei testimoni che si riducono a tre: la Madonna sempre più chiusa nel suo tragico dolore, Giovanni che stringe le dita piegando indietro le mani, la Maddalena che le apre, invece, ma urla il proprio dolore. Il paesaggio è sempre brullo e aspro, purtroppo la montagna alle spalle della Madonna, che sembra assorbirla, è stata ridipinta e quindi ingiudicabile. Il Cristo acquista maggior dimensione, si smagrisce ulteriormente e la cassa toracica si accentua, la corona di spine si evidenzia maggiormente, l’asse longitudinale della croce si curva, non è più orizzontale, come a sentire il peso del corpo e del dramma. Il colore si fa più livido, spento rispetto al dipinto di Basilea, compare in alto a destra l’eclisse di sole, che giustifica il cielo scuro. Queste caratteristiche determinano una datazione più vicina a quella di Isenheim, 1510-16, e la quasi certezza che queste due tavole sono concepite certamente come opere votive autonome.

La terza Crocefissione è, molto probabilmente, una delle ultime opere dipinte dal Grünewald, la datazione presunta è intorno al 1523-5. Parte, forse, di un Polittico per la chiesa di Tauberbischofsheim, sul suo retro era dipinto un Cristo portacroce. L’intensa espressività legata ad una monumentale essenzialità la fanno intendere, appunto, come opera tarda. La composizione raggiunge la massima semplicità e concentrazione degli effetti patetici, nonostante la sua dimensione (195 x 142 cm) ed il paesaggio è ridotto ad una indistinguibile vallata verdastra. Il corpo di Gesù è più robusto, più grande la testa ed in particolare la stessa corona di spine, ma diversamente dagli altri qui il Cristo è ancora vivo, il capo si sta sempre più reclinando, l’occhio è semichiuso, la bocca aperta esala gli ultimi respiri, una variante che rende sempre vivo e motivato il dipingere.

Il Cristo portacroce sul retro della Crocefissione

Ritornando al nostro Altare, a chiudere la visione normale ci rimane la predella con il Compianto sul Cristo morto, dove l’intensità drammatica della Crocefissione si scioglie in una dolente scena di lutto. I personaggi sono situati a destra lasciando lo spazio a sinistra vuoto, rimarcandone il senso col sepolcro appunto vuoto, davanti al quale è posta la grossa corona di spine. Questa soluzione tenta di riequilibrare i pieni (i tre a sinistra della croce) e vuoti dello spazio superiore, che ne riprende addirittura l’inclinazione sempre nel S. Giovanni e nella testa di Gesù, il cui corpo martoriato è disteso, si è come abbandonato. Ciò è evidente nella mano sinistra, mentre la destra ed i piedi conservano una tensione irrigidita. Nel volto rimane la piega amara della bocca, ed una particolarità sta nel come il nostro pittore colloca le due figure della Madonna e della Maddalena, ne vediamo solamente le parti superiori dei busti, il resto dov’è? Sono in una fossa accanto al sepolcro? Questo non soffermarsi su aspetti formali è tipico degli artisti veri, che non si preoccupano eccessivamente della realtà concreta, ma la piegano alle loro necessità espressive. Qui era importante avere allo stesso livello le teste dei presenti, quindi ci accorgiamo di come il Cristo rimanga comunque di una dimensione maggiore. Mentre la Maddalena esprime apertamente tutto il suo dolore, la Madonna si rinchiude sempre in sé, non vediamo gli occhi che piangono, ma le lagrime che scendono e sempre le mani in articolazioni del tutto particolari. Dietro la base della croce, ma tra due alberi. Come già detto, quando l’Altare si apriva le due parti in cui era diviso il Compianto (notare il legno grigio che copre il taglio) scivolavano una a destra l’altra a sinistra, tagliando le gambe del Cristo, che appariva anche lui come amputato, un’ulteriore immedesimazione che poteva scattare da parte di chi, ammalato, subiva un simile intervento di chirurgia, che era tra i più consueti nell’ospedale di Isenheim.                                                     

Con la Prima Apertura il clima cambia completamente, non solo sul piano dei soggetti e relative simbologie, ma anche sul piano della pittura vera e propria. Se con la Crocefissione viene trattato il tema della Redenzione, qui abbiamo quello della Incarnazione. Da sinistra, gli episodi: l’Annunciazione, il Concerto degli angeli, la Natività e la Resurrezione. Immediata la diversa sensazione del colore e della luminosità, con rimbalzi e rimandi tra le singole scene di zone più o meno irridescenti.

La scena dell’Annunciazione si svolge in un ambiente ecclesiale, ma che, grazie all’inserimento di due tende, una rossa l’altra verde, si trasforma in spazio più intimo, casalingo: ci sono una credenza, dei libri e una cassapanca sui cui poggia il grande libro che la Vergine sta leggendo. Dunque, un contesto che sottolinea la consonanza tra Madonna e Chiesa. Il libro è aperto sul testo di Isaia (7, 14-15), che è ben leggibile anche dal fedele, “Ecce Virgo concipiet et pariet filium et vocabitur nomen ejus Emmanuel…” “Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele…” la ripetizione in seconda pagina del testo lo fa intendere come un breviario. La Vergine, avvolta in un mantello blu scuro dal risvolto rosso e su cui risaltano i lunghi capelli biondi, è come colta di sorpresa dall’apparizione dell’arcangelo, e sembra sciogliere le mani che erano giunte per la preghiera. Gabriele, ancora nel turbine del suo planare dal cielo con gli svolazzi del suo mantello, regge uno scettro e con due dita della mano indica la fanciulla, gesto che è dovuto ad una evidente correzione, inizialmente le dita indicavano la colomba dello Spirito Santo che aleggia, in una sua luminosità, al di sopra della tenda verde. Una sottolineatura dell’importanza di Maria, che gira il viso, ma guarda

in tralice verso l’arcangelo. È molto interessante un disegno di Grünewald in cui ha studiato un altro atteggiamento per la Vergine, lo spavento per l’improvvisa apparizione dell’arcangelo la porta a proteggersi il volto con la mano, causando quella particolare ombra sulla guancia e sul mento che, anche con l’altra ombra sulla mano che gira la pagina, ci conferma la particolare attenzione del nostro pittore per gli effetti della luce. Non meno straordinario il gioco di luci ed ombre sul bellissimo abito plissettato, che è un’altra specialità del Grünewald, che vedremo anche più avanti. Anche nei capelli stessi di Gabriele osserviamo un passaggio di ombre e luci che riscontriamo anche

nell’alternanza delle volte ad ogiva, dove la sensibile variazione della luce si va attenuando verso le vetrate di fondo. Una ombra intensa nello spazio domestico, così da far risaltare nella vela della volta la scultura con il profeta, che tiene un libro e sottolinea in questo modo che tutto era già scritto. Contrasto marcato nelle vele della volta successiva che ha i costoloni rossi, che diventano verdi ed aumentano di numero nella volta successiva, dove la luce si fa più diffusa. Il tutto costruito tramite una prospettiva precisa, che riscontriamo anche nel pavimento, e verrebbe da riferirsi ad un qualche influsso del rinascimento italiano, ma di ciò nessun elemento può andare oltre alla semplice sensazione, nessun contatto ci risulta, tanto meno un probabile viaggio in Italia. L’unico possibile tramite, potrebbe essere il Durer, ma comunque sempre a livello di ipotesi. 

I due episodi successivi, il Concerto degli angeli e la Natività, si presentano come uno spazio unificato, solamente una tenda nera uniforma il fondo nel Concerto, ma nella rappresentazione non c’è né unità di tempo né di luogo. È una contraddizione, ma bisogna prenderne atto, gli artisti si prendono, fortunatamente, queste straordinarie libertà. La cosa ha posto enormi difficoltà agli storici dell’Arte, che, in buona parte, non hanno capito che l’Arte va ben al di là del dato storico e delle spiegazioni logiche, qui c’è pura fantasia e combinazione di elementi fantastici che si inseriscono in una realtà quotidiana molto più semplice, che poi questa si faccia Storia è una ulteriore aggiunta di significati, decisamente superiori alla realtà stessa. Siamo come difronte ad un particolare palcoscenico dove Grünewald è come un Walt Disney in anticipo, che accosta elementi incoerenti, ma con risultato accattivante, valido ed efficiente.  

Il secondo episodio è dunque semplicemente fantastico: nel Concerto degli angeli il pittore si abbandona al gioco delle luci e dei colori, riuscendo a non dare, giustamente, consistenza fisica agli angeli musicisti. In quello in primo piano ciò è particolarmente evidente, per quello strano colore, quasi trasparente nella sua luminosità e nel suo rosa molto chiaro con velature azzurrastre, che con attento stratagemma viene ripreso dallo svolazzo dell’abito dell’angelo dietro di lui, dando continuità coloristica. Le ali sono dello stesso colore dell’abito come la viola da gamba, priva di peso in quanto appoggia sulla parte di abito ancora sollevato da terra senza fare alcuna piega. La creatura angelica ha i capelli di un biondo rossiccio, un viso asimmetrico e da ragazzino di strada più che angelico, e oltretutto suona disinvoltamente con l’archetto a rovescio. Sopra due gradini, dietro, c’è un tempietto, ma direi più un’edicola in stile gotico fiammeggiante, con colonnine dorate, una lunetta che anticipa il liberty nei suoi giochi lineari, alcune statue di profeti o santi su capitelli o peducci. Uno senz’altro, poiché regge le tavole della legge, è Mosè, al centro due che sono in vivace e gesticolante colloquio li individuerei, visto il contesto in cui siamo, in S. Paolo Eremita quello col cappello ed un gilet con delle code e l’altro non può che essere S. Antonio Abate. Sotto di loro un profeta a braccia incrociate ha un’espressione decisamente pensierosa. Sotto un baldacchino di stoffa all’interno dell’edicola, sono concentrate una serie di presenze eteree di diverse dimensioni e colori tutti con le ali, di cui alcuni immersi in aureole. Ma si evidenziano un angelo in rosso che suona una viola e dietro di lui un personaggio, con le ali ma anche il corpo ricoperto da piume, uno strano ciuffo di capelli sull’orecchio e in cima al capo una bizzarra e probabile cresta, il tutto con una tonalità grigioverde, così come le dita molto affusolate e con anelli, il volto di profilo che guarda in alto ed a bocca aperta, con una strana espressione tra il sospeso e il dubbioso. Non ha l’aria di chi dovrebbe cantare, né sembra un angelo. È l’unica figura non luminosa, priva di aureola, indubbiamente una presenza di altra natura rispetto a tutti gli altri, se non negativa almeno inquietante, non a caso tra la sua testa e lo strumento musicale una testina aureolata ha gli occhi chiusi, diversamente da tutti gli altri. Qualcuno ha proposto che possa essere lo stesso Lucifero, quale costante presenza del male ovunque, a ricordare l’eterna lotta tra il bene e il male. Un contrasto che ha la funzione di esaltare un qualcosa d’altro, un fondamentale principio pittorico che non a caso il Grünewald usa ed inserisce in quanto nella parte dell’edicola che guarda verso la Natività abbiamo il Bene assoluto. È quella immagine di pura luce della Vergine con doppia aureola, già incoronata ed a mani giunte, che guarda verso l’altra sé stessa che tiene in braccio il prodotto: il figlio di Dio. Non può essere che la Immacolata Concezione e cioè la purezza, infatti sopra di lei due figure angeliche reggono uno scettro ed una corona mentre in una lunetta color ocra e molto luminosa appare un probabile Padreterno,  con un cerchio di luce sulla testa e un anziano inginocchiato davanti a lui.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Ecco che, con questa lettura, il rapporto tra le due scene, apparentemente incoerente, si rende logico, infatti sul gradino successivo, sotto alla Immacolata, è appoggiata una ampolla di cristallo completamente trasparente e limpida e non casualmente, quale simbolo di Purezza. Questo specifico particolare mi ricorda un’Annunciazione di Filippo Lippi del 1440, nella chiesa di S. Lorenzo a Firenze, in cui in primo piano, in una specifica ansa del gradino è posta una ampolla di cristallo. Il Grünewald non poteva conoscere certamente questo dipinto, ma il valore è nelle comuni e consolidate simbologie.

Davanti al simbolo della Purezza, c’è un mastello di legno con tanto di asciugamano per il bagnetto del piccolo neonato, accanto c’è un vasino per il piccolo, che sotto il bordo ha delle lettere ebraiche, qualcuno lo interpreta come una possibile manifestazione antigiudaica, alquanto frequente all’epoca. Accanto alla Madonna vediamo la culla con le piccole candide lenzuola e sul cuscino è già posto un nastro viola, quale segno funebre. Ecco che la contraddizione apparente si dissolve, oggetti quotidiani sono parte di un mondo spirituale in un rapporto ambivalente. Ma questo continua anche nella Natività, che si direbbe più una Madonna col Bambino, splendida nel sontuoso abito rosso, bordato di pelliccia ed avvolta nel mantello di un blu intenso, le cui pieghe ricadono, con attenzione alla loro regolarità, sul muretto dove lei è seduta, nel suo giardino, l’hortus conclusus, con le rose rosse senza spine e l’albero di fico, che è simbolo di verginità in quanto i suoi frutti crescono senza impollinazione. Si vede il muro di cinta con l’arco dell’ingresso e qui un’altra delle straordinarie invenzioni del Grünewald: al posto del cancello c’è la Croce, è già lì a segnare l’ineluttabile destino, non meno del panno bianco con cui il piccolo, che gioca con una coroncina dorata di un rosario, è quasi avvolto e che è già logoro e strappato, come sarà il suo perizoma sulla croce.

Ciò non toglie nulla all’intenso e dolce sguardo pieno d’amore della Madonna e alla tenerezza con cui tiene il bimbo, del resto è una mamma, come tante. Oltre il fiume, su un altopiano alla cui base sta una chiesa, si svolge l’Annuncio ai pastori, che sono sovradimensionati come proporzione e anche trasparenti, dunque più un’apparizione che una realtà, e dietro un grande monte roccioso e scosceso la cui cima è immersa in una intensa ombra provocata dal Paradiso (una non realtà fisica che però produce un’ombra vera, altra contraddizione) con Dio, il papà, che circondato dalla sua corte angelica, ammira dall’alto il proprio figliolo. Reale e sovrannaturale coesistono costantemente, senza alcun problema, grazie ad una pittura di grande qualità che supera e va oltre i dati storici o razionali, come vedremo anche nel prossimo pannello. Proprio questa anta della Natività per la sua resa dello spazio e per l’uso della luce fa spesso parlare di una modalità più italiana che tedesca, ma, come detto, rimane una sensazione e una ipotesi visiva. 

Nella Resurrezione si passa direttamente al momento finale della vita terrena del Cristo, ma per come lo imposta il Grünewald diviene anche la rappresentazione della Trasfigurazione e della Ascensione. Infatti il Cristo luminoso e radioso si eleva nella notte nel cielo pieno di stelle, avvolto nel suo sudario volteggiante, è l’uomo che ritorna Dio, perde qualsiasi consistenza fisica e diventa pura luce, puro spirito. Nel racconto evangelico Gesù appare agli apostoli dopo la Resurrezione, che vedendolo furono colti dallo spavento “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne ed ossa come io ho” (Luca 24,39). Quando impartì le sue ultime istruzioni, li condusse verso Betania e levando le mani li benedisse “Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (Luca 24, 51). È Il momento che sceglie Grünewald, ma qui abbiamo il sepolcro e le guardie. Nella Resurrezione non c’è la presenza di Gesù, ma: “Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve. Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite” (Matteo 28, 2-4) ed è, in parte, ciò che qui è raffigurato. Non c’è l’angelo, che è come identificato dallo stesso Gesù, il cui sudario nella parte ancora nel sepolcro e poco fuori, è candido sino alle gambe di Gesù, che nei piedi ha le stimmate, poi nel successivo elevarsi, la stoffa si fa di più colori, dal bianco all’azzurro, al rosso, all’arancione, al giallo tornando quasi al bianco nel volto del Cristo, che è immerso al centro di tre cerchi colorati, giallo rosso ed azzurro. Impossibile sapere quanto Grünewald potesse conoscere Dante, ma il riferimento alle tre righe del Paradiso canto XXXIII, 115,117 è inevitabile “…Ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;”. E non solo, qui il nostro pittore diventa anche nostro contemporaneo nei sapienti e straordinari passaggi coloristici del sudario che si fonde nella luce e nel colore, è informale, quasi astratto.

Che dire poi del grande masso che, illuminato di riflesso dalla luce calda dell’apparizione, sembra cambiare natura ed a sua volta aleggia nella notte. Chi invece è come precipitato a terra sono i quattro soldati, i loro visi sono rivolti tutti in basso, ribaltato sulla schiena quello in primo piano, gli altri tre carponi: è come se la luce avesse anche un peso fisico che non riescono a reggere ed a cui non possono contrapporsi. Al senso di peso contribuisce la particolare attenzione data alla descrizione delle pesanti armature nei loro minimi dettagli, come la notevole maglia metallica di quello ribaltato.

A questo punto mi viene spontanea una riflessione su come il Grunewald ci raffigura i due momenti cardine del Cristo: sulla croce morto e poi risorto, usando l’evidenza reale della pittura che diviene linguaggio filosofico-teologico. La Morte è nella realtà l’evento in assoluto più sconcertante della vita dell’uomo, la morte viene vissuta dal Cristo in tutto il suo orrore, un vero e proprio “scandalo”, che si manifesta in tutta la sua atrocità sconvolgente. Le Crocefissioni del nostro pittore rappresentano Cristo con la bocca aperta, da cui promana l’impressionante urlo di morte. Giovanni Testori in Grunewald, la bestemmia e il trionfo scrive: ” Sarà proprio in Cristo, nello strazio del suo corpo, nella coesistenza, in esso, dell’atemporalità più assoluta e abbagliante e della temporalità più caduca e sanguinante (del verbo, insomma e della materia) che Grunewald realizzerà il sunto, la figura tipica o, diciamolo pure, il prototipo, rovesciato e arrovesciante, insieme vindice e schiavo, prono e vittorioso, di quello scandalo. Nel Cristo viene riassunto in modo emblematico l’enorme povero strazio di tutti i servi e di tutti i vinti che sempre furono e saranno infangati, assassinati e distrutti”. Preso atto di questo, viviamo poi il netto contrasto del Cristo risorto che è pura luce, e cioè, senza l’orrore della disumanizzante morte che subisce il Cristo non avremmo il trionfo della sua Resurrezione, infatti S. Paolo può cantare: “La morte è stata distrutta: vittoria! Dov’è, morte, la tua vittoria? Dov’è morte il tuo pungiglione”. Proprio per il fatto che ha profondamente compreso ed efficacemente rappresentato quello scandalo della morte che Grunewald può darci la visione della gloria straordinaria della Resurrezione. Testori precisa che in essa “Cristo sembra lasciar il sepolcro trascinandosi dietro qualcosa che non ha soltanto la forma e la sostanza d’un sudario ma quello d’una placenta izuppata di liquidi amniotici e accesa, insieme, di zolfi e di lampi innici e come trafugatori di ciò che sembra essere e appartenere veramente al Dio eterno…” Resurrezione dalla carne e non della carne, come puntualizza Plotino. Ecco che , per chi crede, può affermare che si impone e verifica quel pronunciamento evangelico che Grunewald richiama, tramite il Giovanni Battista ILLUM OPORTET CRESCERE.

Ora non ci rimangono che le due ante laterali della Seconda Apertura, quella con le sculture, che abbiamo già analizzato, e dedicate al patrono dell’Ordine in due momenti significativi della sua vita: a sinistra la Visita di S. Antonio Abate a S. Paolo Eremita, a destra Le tentazioni di S. Antonio. Gli episodi si ispirano alla Vita S. Antonii di Atanasio di Alessandria del IV sec. d.C.

In sogno ad Antonio viene comunicato che c’è un Eremita migliore di lui, così decide di conoscerlo ed intraprende un viaggio nel deserto con incontri e peripezie varie, finché vede una lupa che entra in una specie di grotta con una luce in fondo al buio profondo, S. Paolo Eremita, avvertito dai rumori, chiude l’accesso. Antonio è costretto ad implorare per essere ricevuto, minacciando di lasciarsi morire lì, piuttosto che tornare indietro. Così avviene l’incontro in questo luogo tranquillo e desolato, con alberi ricoperti di licheni, rocce ricoperte di muschio, stranamente una palma rigogliosa, probabilmente per i suoi frutti, i datteri, cibo per l’eremita, sul fondo una vallata con un fiume, un cervo che bruca, mentre una cerbiatta si è accovacciata tra i due eremiti in vivace dibattito, che si evidenzia nel loro gesticolare. In alto, arriva il corvo che porta quotidianamente il pane a S. Paolo, che infatti lo sta osservando, ma visto che c’è un ospite ne porta una doppia razione. I due dibattono su chi ha l’onore di spezzare il pane divino, in quanto ognuno si ritiene indegno fino a che, equamente, decidono che ognuno tira il proprio pezzo dalla sua parte. Mentre S. Paolo, che è vestito di una tunica fatta con le foglie intrecciate di palma, ha un atteggiamento disinvolto, S. Antonio mantiene sempre la sua consueta rispettabilità avvolto nel suo mantello grigio azzurro, con l’abito blu e il solito copricapo. Un particolare interessante, che ci riporta al contesto ospedaliero, è che ai piedi dei due Eremiti e in primo piano, sono rappresentate una serie di quattordici piante usate nei medicamenti per la cura delle malattie: verbena, piantaggine grande e lanceolata, papavero, prunella, ederella, ranuncolo ecc… Sulla roccia in basso, accanto al mantello di S. Antonio vi è lo stemma con le insegne di Guy Guers, precettore del convento e committente dell’Altare.

Il secondo pannello illustra le Tentazioni di S. Antonio. Il santo è attaccato dai diavoli mentre è nel deserto coricato a terra. Un’orda di esseri mostruosi lo assedia contemporaneamente e qui la notevole fantasia di Grünewald si scatena liberamente, infatti il testo di Atanasio è più laconico, limitandosi a parlare di graffi, cornate e morsi. Qui si direbbe che siamo in un vero e proprio assalto sproporzionato, anche perché la voluta non reazione di S. Antonio è totale e assoluta. In una decina si accaniscono contro di lui, uno lo afferra per i capelli e lo vuole colpire con una mandibola animale, in due gli vogliono prendere il mantello, uno di loro vorrebbe addirittura e inutilmente romperlo a morsi, l’altro demonio cornuto in fronte ha due occhi destri, a sottolinearci quanto il nostro pittore è attento a tutto ed ogni minimo particolare serve alla creazione di una impossibile realtà, sempre lo stesso demonio, nel braccio e nella spalla è segnato da tanti foruncoli neri, la malattia non risparmia nessuno, nei demoni permane la negatività costante. Un mezzo ippopotamo-rospo, con un calzone solo su una zampa, tiene il gomito del santo col suo braccio che ha le ali, un altro è un grosso uccello con un piumaggio variegato e lunghe zampe, entrambi impugnano un bastone pronti a colpire.

Dietro, altri demoni litigano tra di loro ed altri tentano di distruggere la già più che precaria capanna del santo, mentre un altro cerca di respingere l’intervento di un angelo inviato dal Signore in difesa di Antonio. Infatti, in primo piano sulla destra c’è un cartiglio su un ceppo d’albero con una invocazione in latino “Dove eri, buon Gesù, dove eri, perché non eri presente per guarire le mie ferite?”. Accanto è presente una specie di odierno armadillo con lungo collo irto di punte e becco che vorrebbe prendere il bastone del santo mordendogli la mano che tiene il rosario. Ma a sinistra, del tutto particolare, è un essere ibrido, che ha sì un piede palmato, ma si direbbe anche umano. Questi porta uno strano cappuccio rosso coprispalla che in cima scende e si allunga come una goccia di sangue rappreso, non partecipa all’attacco, sembra un semplice spettatore, si potrebbe dire senz’altro che è un ammalato del “fuoco di S. Antonio” pieno di pustole, col ventre gonfio, il braccio col moncherino alzato (la mano è già caduta) mentre con l’altra mano tiene un sacco rotto in cui ci sono dei libri. La malattia sta trasformando anche lui in un mostriciattolo. Una immagine che ha indubbiamente l’intenzione di risvegliare l’attenzione di chi guarda e prova la medesima sensazione di infiammazione, dolore e consunzione del corpo, che doveva essere quella degli ospiti dell’ospedale.    

Giusto per un confronto, è interessante dare un’occhiata ad un paio di altre Tentazioni di S. Antonio, quella ad incisione di Martin Schongauer e quella a Trittico di Hieronymus Bosch.

Schongauer (1450-1528 circa), che abbiamo già visto con la Madonna del roseto, nato a Colmar, è debitore stilisticamente di Roger van der Weyden e si orienta verso una serenità classica, segnando il confine tra il tardogotico e la sensibilità rinascimentale. La sua opera è fondamentale nel campo dell’incisione che diventa una produzione totalmente indipendente ed autonoma dalla pittura, come avviene in Italia col Mantegna o Antonio Pollaiolo. In Germania proseguirà soprattutto con la fondamentale opera incisoria del Durer. Nell’incisione con la Tentazione di S. Antonio si respira ancora la cultura medioevale, ma le figure aleggiano nel cielo, viene meno la pesantezza terrena, e l’autore risolve compositivamente l’immagine con i diavoli che creano un cerchio che ruota intorno al santo. Demoni che sono il risultato fantastico di varie parti di animali diversi montate insieme. Diversa l’atmosfera che si respira nel trittico con le Tentazioni dipinte dal Bosch (dal 1453 al 1516) pittore dei Paesi Bassi, decisamente unico nella Storia dell’Arte, che rispecchia fedelmente lo spirito mistico-religioso dell’epoca, vissuto da tutta la popolazione e non singolarmente. Nelle sue opere percepiamo, in un paesaggio sempre ampio e tutto sommato tranquillo e sereno, un realismo che agisce in senso contrario a quello della natura, fin dall’inizio esso si sforza di esprimere l’immateriale con combinazioni inesauribili delle cose del mondo sensibile che però creano una gran varietà di creature e situazioni fantastiche. Una vera e propria enciclopedia dello spirito medioevale e dei grandi temi religiosi. L’aggressione fisica di Grünewald è totalmente assente in Bosch, infatti il nostro santo non viene distolto dalla sua meditazione dai demoni che lo circondano, rimane isolato, è sì circondato da infinite realtà ma sono intorno a lui, non sopra o addosso, infinite tentazioni appunto, da cui non si lascia coinvolgere, è al centro dei dipinti in ginocchio o col libro in mano, ma indifferente. L’arte bizzarra e fantastica di Bosch, venendo meno il clima culturale religioso medioevale rimane incomprensibile razionalmente, ma straordinariamente affascinante.

Non possiamo non dare un’occhiata a qualche altra opera, il che ci conferma alcuni aspetti molto importanti ed interessanti del Grünewald. Dobbiamo tener conto che si sono perse molte più opere di quella decina, di confermata autografia, che ci sono giunte. Persi ad esempio ben tre Polittici del Duomo di Magonza, noti e famosi per la loro straordinaria potenza espressiva, un dipinto con S. Giovanni, il Trittico di Aschaffemburg con due tele per la cappella Schantz, e il pannello centrale del Polittico della Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, per la chiesa dei Domenicani di Francoforte, dipinto intorno al 1511, di cui ci rimangono i due pannelli con quattro santi in monocromo (Francoforte, Historisches Museum) mentre quello centrale, di cui vediamo nel disegno una ipotetica ricostruzione, è andato perso.  

Tuttora non è chiaro il rapporto con un altro Polittico detto Heller dal nome del committente Jakob Heller, patrizio di Francoforte, la cui realizzazione fu piuttosto lenta, dal 1503 al 1509, ed affidata ad Albrecht Durer, che nel pannello centrale raffigurava L’Assunzione della Vergine e Incoronazione della Vergine. Da lettere di Durer e dello Heller, il Polittico risulta completo e spedito ed a ottobre 1509 il committente si dice soddisfatto. Accade poi che lo stesso Heller si rivolga al Grünewald per completare il Polittico, ignota la motivazione di tale richiesta. Abbiamo descrizioni del Sandrart ed altre del 1620 e dei primi del settecento che descrivono i dipinti ma confondendoli tra di loro. Da questo, dedurre che i Polittici erano due, uno di Durer e l’altro di Grünewald ed in specifico la Trasfigurazione di Cristo è nella logica dei fatti. I quattro santi dei monocromi grünewaldiani si legano maggiormente col relativo pannello centrale sul piano del rapporto simbolico, mentre stilisticamente sono ben diversi e di qualità decisamente superiore rispetto ai monocromi del Polittico dureriano eseguiti dalla sua bottega. Veramente notevoli questi quattro monocromi grünevwaldiani con S. Lorenzo, S. Ciriaco e due sante: Elisabetta e Lucia.

S. Lorenzo è illuminato da una intensa luce dall’alto e da destra, tiene la graticola, con cui è stato martirizzato e con la mano destra un libro. Ampio il gioco delle pieghe della dalmatica che indossa determinando accentuati giochi di luci ed ombre ed una intensa variazione di grigi. Anche S. Ciriaco riceve una forte luce dall’alto, ma da sinistra. Il santo tiene un grosso libro su cui è scritto e leggibile un esorcismo che sta pronunciando per liberare la principessa Artemia, figlia di Diocleziano, dal demonio che la possiede, infatti la tiene per il mento con una fascia, mentre le mani gesticolanti e lo sguardo divergente della fanciulla manifestano chiaramente questa possessione. Entrambi i santi hanno un buio profondo dietro, all’altezza della testa, nel quale sono presenti delle foglie, rispettivamente di luppolo e nespolo per Lorenzo e fico per Ciriaco. La scritta col nome sui piedistalli è posteriore e la loro dimensione rispetto alle due sante è maggiore per il fatto che queste sono inserite all’interno di nicchie con vegetali. Tuttavia presentano lo stesso tipo di illuminazione. La disposizione sottostante, che propongo, mi sembra più logica rispetto a quella indicata da altri, sia sul piano della composizione, sia soprattutto sul piano delle luci (che per i pittori sono comunque e sempre gli elementi dominanti). Essa, con le sante nella parte superiore, stabilisce un miglior equilibrio sia sul piano architettonico, sia su quello d’insieme rispetto alla scena centrale della Trasfigurazione.

La S. Elisabetta ha una doppia ombra, ma stando all’abito e al velo la luce dominante è quella che viene dal centro e cioè dal Gesù che si sta trasfigurando in luce, l’ombra in più è uno stratagemma pittorico per individuare misura e dimensione della lunetta, come accade puntualmente in quella di S. Lucia, la cui ombra è precisa. S. Elisabetta, figlia del re d’Ungheria, si dedica all’elemosina per i poveri e alla cura degli ammalati, infatti qui offre un pezzo di pane e da bere con una brocca, indossa uno splendido abito plissettato con un grosso gioiello, come altrettanto ricco è l’abito di S. Lucia, meno statico in quanto un colpo di vento la investe muovendo le numerose pieghe, ma in particolare i riccioli dei lunghi capelli. Le straordinarie plissettature amplificano con grande sensibilità grandi zone di fitta alternanza di ombre e luci in minime variazioni chiaroscurali. La santa martire, vista la palma, che disegna tra l’altro l’andamento della lunetta, viene individuata, ipoteticamente, come S. Lucia, ma non mostra i due occhi come in tutte le sue iconografie, per definirla tale, un motivo è costituito dalle piante raffigurate ai suoi piedi: celasto, pelisella, caledonia che sono curative per gli occhi, non meno intrigante il suo particolare sguardo di traverso, che va oltre il Polittico. Alcuni particolari ci mostrano la notevole attenzione o meglio passione di Grünewald per certi aspetti sempre caratterizzati come gli strani movimenti delle dita (una vera e propria costante di tutta la sua produzione) o le plissettature, ricordiamoci il bellissimo disegno della Vergine annunciata.

Anche in un altro disegno (Berlino, Staatliche Museen) ritroviamo queste passioni, una S. Dorotea, martire del III sec., veramente entusiasmante per chi ama il disegno appunto. È un disegno a carboncino poi ripassato con acqua, come si fa nell’acquarello, in cui si evidenzia un’alternanza degli scuri e delle luci, nonché delle sensibili e morbide varianti dei mezzitoni. Mentre nella parte del volto prevale la luce che sfalda lo stesso disegno, immergendo la testa nella luminosità dell’aureola, che ha quei tocchi immediati e liberi, ma sensibili, di carboncino, i capelli si immedesimano con la verticalità della stoffa sul petto o a onde sulle spalle. L’artista introduce curve, volute e una quantità di minime pieghe, incrinature e attorcigliamenti, che seguono un ritmo serrato e danno una vibrazione continua alle varianti luminose. E quella testa che, tutta inclinata, ad anticipare forse l’effetto della prossima decapitazione, dà un effetto di leggero e sciolto dinamismo a tutta la figura, ingentilita dal delicatissimo gesto delle dita che trattengono il candido fiore.

Ma non possiamo dimenticare due altri disegni di studi per due apostoli della Trasfigurazione (Dresda, Staatliche Kunstsammlunghen). Le figure, se pur inginocchiate se non quasi sdraiate, non reggono la luce potente della Trasfigurazione. Il tratto del carboncino è qui più forte, tant’è che i bianchi sono ripresi con tempera bianca, la luce dall’alto inonda le schiene. Un dinamismo statico.

Quale doveva essere la forza di quel dipinto, un’idea la possiamo intuire dalle parole di Sandrart: “Ma un opera particolarmente degna di elogi è la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, da lui dipinta con colori ad acqua: in primo piano vi si vede una nuvola meravigliosa in cui appaiono Mosè ed Elia, al di sotto della quale, stanno gli apostoli in ginocchio. Questo dipinto è così notevole per l’invenzione e la tinta che non è superato da nessun altro; si può anche dire che è, nel suo genere, incomparabile e una madre di tutte le Grazie”. Enorme il rammarico che questo capolavoro sia andato perduto.

E chiudiamo con quello che probabilmente è, a tutt’oggi, l’ultimo suo dipinto del 1525 circa, un Cristo morto, olio su tavola di 36 x 136 cm, attualmente nella Collegiata di S. Pietro e S. Alessandro ad Aschaffemburg, e, considerando gli stemmi ai lati del dipinto, probabilmente l’ultima commissione dell’Arcivescovo di Magonza Albrecht von Brandenburg, (che è ritratto mentre sostiene lo stemma e il cappello cardinalizio sopra la croce), prima di perdere l’incarico di pittore di corte. Vista la particolare dimensione e composizione si suppone che possa essere la predella di una Pala d’altare o di un polittico. Infatti tale ipotesi è surrogata dai tagli del braccio e della gamba, dalla dimensione dei due stemmi, eccessiva se fosse un’opera a se stante, dalla base della croce e della scala per la deposizione, ma in particolare dal taglio, che direi più da fotografia che pittorico, della figura in secondo piano, indubbiamente la Madonna, con quelle due mani che mostrano il consueto strano intreccio delle mani grünewaldiano, in cui è qui, ma lo abbiamo già visto, significativo il vuoto tra l’indice e il medio della mano sinistra, un buco in una unitarietà. Una morte nella vita. Qui c’è il sangue che sgorga ancora dalla ferita del costato, ma il corpo è molto meno lacerato rispetto al Compianto di Isenheim. La sensazione che suggerisce il corpo del Cristo con la testa molto inclinata e che appoggia sulla spalla, la mano semisollevata, come la gamba, è che poi ci sarà il risveglio o meglio la resurrezione. Ben diverso dal concetto di morte assoluta che osserviamo nel Cristo morto del Mantegna. (studio recentemente pubblicato in questa sezione Capolavori).

La straordinaria Arte di Grünewald è decisamente complessa nei suoi diversi valori culturali ed umani, quanto è limpida ed immediata nei valori della Pittura, il suo non è semplice virtuosismo o talento naturale, ma è il dominio della sua mente sullo strumento pittura, che non è da tutti, anzi è di pochi. Nella sua opera trasmette il senso della realtà, da non confondere col realismo, che riporta ciò che vede l’occhio ma da fuori, all’esterno. La sua è la realtà della vita, quella di tutti i giorni, che ti segna, ti fa, anzi ti costringe a riflettere e ripensare l’accaduto, perché lo vivi sulla tua pelle…che è poi anche quella pelle che si può riempire di pustole malefiche. Non fa uso di allegorie, nessuna idealizzazione nei volti e negli atteggiamenti. Ciò che si vede è la trascrizione delle diverse materialità delle stoffe, dei legni e dei corpi, mentre la diversa dimensione rivela la diversa condizione. Nel Cristo morto la dimensione dell’arcivescovo che si tiene stretto lo stemma è uguale a quella dell’uomo con la cuffia bianca che prega, intensamente, nella speranza che un possibile intervento divino migliori le sue condizioni, un divino che è lì davanti, grande e immenso rispetto a lui. Qui c’è ancora tutta la religiosità e spiritualità medioevale, che permea il quotidiano e lo segna ineluttabilmente. L’espressività diviene fondamentale: i sentimenti, il dolore, l’amore o la bellezza, nella loro variabilità o intensità possono portare anche ad estreme deformazioni. E qui una cosa ci deve far riflettere: i nazisti hanno considerato la sua Arte “Entartete Kunst”: Arte degenerata, perché in un certo senso quasi espressionista, ma chi infierì sui corpi dei suoi simili fino a renderli più straziati di quelli dei martiri di Grünewald? Chi furono più degenerati dei nazisti? Melantone, umanista, riformatore, una delle personalità culturali più rilevanti del cinquecento tedesco, amico di Lutero, fece una specie di graduatoria, ponendo al centro il Grünewald con il suo stile tra il “sublime” e l”umile” e riconoscendone la profonda tragicità, e dall’altra parte il “sublime idealizzante” di Durer opposto al “carattere quotidiano” di Cranach. In particolare, è il rapporto con Durer che è chiarificatore, questi è l‘autentico rappresentante del Rinascimento tedesco, che rielabora la lezione di quello italiano, conosciuto molto bene grazie ai suoi viaggi; nella sua pittura la forma e la linea sono determinanti, ed egli stesso dichiara che per lui era rilevante il giudizio dei suoi colleghi artisti e non quello del popolo, mentre per Grünewald è esattamente il contrario. Qui vediamo il Polittico Heller, di cui abbiamo già parlato, col pannello centrale dell’Incoronazione della Vergine che purtroppo è una copia, in quanto l’originale del Durer è andato distrutto da un incendio nel 1729. I due pannelli laterali sono opera della bottega. L’equilibrio compositivo, luminoso e coloristico è ciò che si evidenzia immediatamente, dopo si va a vedere cosa è stato rappresentato, con Grünewald è sempre il contrario, sei subito aggredito e sovrastato dal soggetto, poi, vai ad osservare come ciò accade, non è rinascimentale ad oltranza come Durer, è rinascimentale o gotico a seconda delle sue necessità, o meglio volontà.

Egli piega il linguaggio a seconda del risultato che ritiene più efficace. Non concepisce le sue opere metodicamente o teoricamente, usa la sua capacità di esprimere con immediatezza e senza compromessi i contenuti che oggi chiamiamo psicologici. È in tutto e per tutto figlio del suo tempo e luogo, la sua drammaticità visionaria si nutre dei componenti dell’animo umano quali angoscia, peccato, ansie, paure che prevalgono sull’amore e la dolcezza per le difficoltà della vita quotidiana, rimane sempre legato ad un ganglio materico, che lo tiene strettamente avvinto alla terra ed alla sua realtà. È profondamente uomo, ma che Artista!

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LA SHOAH “La resistenza ebraica”

“Giornata della memoria”

27 gennaio 2021

MARINA NAPOLETANO

LA SHOAH

LA RESISTENZA EBRAICA

Edizione speciale per Conferenza

 Palazzo Arese Borromeo

Sala Aurora

Disegno di Marina Napoletano   “Le conseguenze dell’odio” 2020

LA SHOAH

LA RESISTENZA EBRAICA

Prima di entrare nel vivo dell’argomento credo utile dare una definizione di “resistenza”. Di solito con questa parola indichiamo una lotta armata contro chi opprime un popolo o un gruppo. Tuttavia non tutti gli storici sono d’accordo con questa definizione in quanto essa sarebbe riduttiva, infatti la “resistenza”, se appunto persegue il fine di liberarsi o attenuare il dominio dispotico di un gruppo o di un popolo su di un altro, può manifestarsi in varie forme: armata o non armata, spirituale o non spirituale, urbana o rurale ecc., forme che quasi sempre sconfinano nell’illegalità secondo le leggi imposte da chi comanda in quel momento.

Nello specifico della resistenza contro i regimi dittatoriali nazista e fascista, chi voleva sottrarre sé stesso e gli altri oppositori alla violenza distruttiva e disumana messa in atto contro di loro, doveva ricorrere a vari espedienti, per cui le varie azioni compiute spesso comprendevano diversi tipi di attività illegali. Ad esempio, i più accorti degli ebrei tedeschi, quando compresero che la situazione in Germania non avrebbe potuto che peggiorare, nonostante l’iniziale progetto di Hitler e dei suoi accoliti non fosse lo sterminio, ma la cacciata dalla Germania, decisero di emigrare, ma ciò comportava la necessità di un visto d’ingresso del paese ospite, di un passaporto, di denaro per il viaggio e per la sistemazione nella nuova patria, disponibilità che non erano alla portata di tutti. Quando poi non fu più possibile emigrare, necessitavano documenti falsi, l’aiuto di qualcuno che indicasse il modo in cui sfuggire agli aguzzini, un nascondiglio.

Questa situazione, che condusse milioni di ebrei a morire nei campi di sterminio, indusse alcuni intellettuali, come Hannah Arendt e Bruno Bettelheim a ritenere gli ebrei corresponsabili del loro destino e ad adottare l’espressione “che andavano come pecore al macello” coniata dal poeta Abba Kovner in un appello lanciato alla popolazione del ghetto di Vilnius.

In realtà si possono portare vari argomenti per smentire questo luogo comune, oltre ai fattori che abbiamo già citato:

  • in primo luogo, soprattutto nell’Europa occidentale, gli ebrei erano non solo integrati, ma in gran parte assimilati, e spesso, essendo totalmente laici, avevano quasi dimenticato la loro appartenenza a quel gruppo. Si sentivano perciò tedeschi, italiani, francesi ecc. In Italia, ad esempio, essi avevano partecipato attivamente al Risorgimento italiano, versato con generosità il loro sangue durante la prima guerra mondiale, partecipato alla vita politica ricoprendo cariche importanti nella vita amministrativa e politica dello stato. Basti pensare a personaggi come Sidney

Sonnino o Luigi Luzzatti che ricoprirono il ruolo di Presidenti del Consiglio. Tutto ciò li rese scettici circa la paventata persecuzione e a volte addirittura simpatizzanti dei vari nazionalismi o addirittura totalitarismi. In Italia c’erano anzi ebrei convintamente fascisti.

Un esempio significativo è quello riportato da Liliana Segre nel libro scritto con Enrico Mentana “La memoria rende liberi”

LETTURA DA “LA MEMORIA RENDE LIBERI”

pagg.30-31

 in secondo luogo il popolo ebraico era diffuso sul territorio, nelle città e nelle campagne e ovviamente non era compattato in organizzazioni di alcun tipo, quindi le milizie naziste e fasciste si trovarono a gestire un conflitto asimmetrico che vide da una parte organizzazioni militari o paramilitari addestrate e armate, dall’altra singole famiglie o persone impreparate e non organizzate.

in terzo luogo coloro a cui veniva imposto di cedere i beni, le attività o la casa non potevano rifiutare pena la morte, per cui si rassegnavano a spostarsi in nuove residenze, nei ghetti, pur di non soccombere e veder uccisi i propri cari. Senza contare che i carnefici, per tranquillizzare le vittime, ricorrevano a continui inganni: basti pensare che, ad esempio, accanto  alla rampa di accesso ai campi di sterminio facevano stazionare sempre camion e ambulanze della Croce Rossa per convincere i selezionati dei convogli appena arrivati e destinati direttamente alle camere a gas

senza nemmeno venire registrati (donne con bambini, anziani, malati, disabili) che sarebbero stati portati in un altro campo.

infine quando nel gennaio del 1942 a Wansee si decise per la soluzione finale, i rastrellamenti e le uccisioni si intensificarono, quasi che, in previsione di una quasi certa sconfitta, si volesse almeno vincere la guerra contro gli ebrei. Fu perciò quasi impossibile trovare scampo.

Nonostante queste pessime premesse la resistenza da parte degli ebrei ci fu e, come ho già detto, fu di vario tipo. Cominciamo parlando della “resistenza spirituale”.

Quando in Germania con le Leggi di Norimberga (1935) e in Italia con le Leggi razziali (1938) gli ebrei si videro privati della cittadinanza, della possibilità di andare a scuola, di lavorare come impiegati statali, di possedere attività commerciali e via discorrendo, la qualità della loro vita subì un drastico peggioramento al quale però essi reagirono cercando di vivere dignitosamente e non rinunciando alla cultura.

Infatti, furono create scuole ebraiche, spesso di ottima qualità perché vi confluirono docenti universitari cacciati dal loro posto e, perfino nei ghetti e nei campi di concentramento, non si rinunciò né alla istruzione, né ad attività culturali come spettacoli teatrali, concerti, giornali ecc. La cultura fu, per molti, un modo per non diventare gli “untermenshen” che i tedeschi credevano che fossero e, le loro opere, sopravvissute a molti loro autori, testimoniano quanto la creatività e l’arte possano, anche nell’orrore, aiutare l’uomo a non arrendersi e a non perdere la sua umanità.

Gli spettacoli a volte venivano allestiti anche in occasione di visite di autorità, soprattutto a Terezin, ghetto modello creato dai nazisti per ingannare gli enti sopranazionali come la Croce Rossa sul trattamento e sul destino dei prigionieri che anche da quella località, invece, finirono nei crematori di Auschwitz.

Leggiamo, citato da Maria Teresa Milano, nel testo “Terezin: la fortezza della resistenza non armata”, la testimonianza di J. Bor su un concerto preparato per la visita di Eichmann in cui il direttore d’orchestra decide di combattere il nemico impartendogli una lezione di vita.

LETTURA DA “TEREZIN: la fortezza della resistenza non armata”

pag.117

I ghetti erano governati dagli Judenràte o Consigli ebraici, istituiti in Europa orientale il 21 settembre 1939, tre settimane dopo l’inizio della guerra, da Reinhardt Heydrich. Essi erano composti da 24 ebrei scelti tra i rabbini e le personalità più importanti, che dovevano tenere i rapporti con i tedeschi, almeno formalmente, perché in realtà i nazisti pretendevano che i loro ordini fossero eseguiti alla lettera. Quale che fosse la loro posizione nei confronti dell’oppressore, essi dovevano comunque provvedere alle necessità della comunità fornendo almeno i servizi necessari alla sopravvivenza. Questo almeno all’inizio, perché successivamente fu loro chiesto di compilare le liste di coloro che dovevano essere inviati nei campi di sterminio. Anche essi, quindi, furono coinvolti nella possibilità di dare vita, seppur con pochissimi mezzi, alla resistenza non armata e lo fecero cercando appunto di rendere il meno possibile dure le condizioni di  vita e di mantenere una parvenza di normalità, di convincere sé stessi e gli altri che fornire forza lavoro ai tedeschi era un modo per dimostrare l’utilità degli ebrei e salvarne la vita. A volte, per riuscire nel loro intento, ricorsero anche alla corruzione. È il caso del ghetto di Lodz  e del suo “judenaeltester” Chaim Rumkowski che, non essendo stato possibile il trasferimento dell’intero ghetto nel Governatorato Centrale, anche a causa dell’opposizione del Governatore Generale Hans Frank, convinse gli occupanti che gli ebrei erano per l’economia tedesca una possibilità da non sottovalutare, in quanto avrebbero prodotto a prezzi bassissimi per gli ariani. Ciò fu considerato da molti come collaborazionismo, ma permise al ghetto di durare per quattro anni e quattro mesi, da fine aprile 1940 fino all’agosto 1944 e ciò fece dire a uno dei sopravvissuti che “Rumkowski quasi li salvò”, anche se poi furono comunque tutti portati ad Auschwitz e nemmeno Rumkowski si salvò. Questo caso controverso e quello di molti altri capi dei Consigli Ebraici fece sì che molti, fra cui Hannah Arendt, accusassero tutti di complicità nello sterminio, giudizio in parte fondato perché effettivamente molti capi furono collaborazionisti. Leggiamo il severo giudizio della filosofa riportato nel libro “La banalità del male”.

Ghetto di Lodz

LETTURA da “LA BANALITÀ DEL MALE”

Pagg. 125-126

La resistenza non armata consisteva anche nell’aiutare gli ebrei a sottrarsi alla persecuzione e in Italia ciò fu possibile anche grazie alla DELASEM, acronimo di Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, nata il 1° dicembre 1939 su iniziativa di Dante Almansi  e Lelio Vittorio Valobra e autorizzata dal governo fascista per aiutare i correligionari stranieri ad emigrare o per assistere coloro che erano stati inviati nei campi di internamento, il più conosciuto dei quali fu quello di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza.

Durante la guerra la DELASEM raccolse più di 1.200.000 dollari, di cui circa 900.000 provenienti dall’estero, dapprima via Parigi, poi, quando la capitale francese fu occupata, attraverso la Svizzera.

L’organizzazione provvedeva a trovare rifugi sicuri, sostegno materiale e documenti falsi.

Con essa collaborarono anche non ebrei come alcuni settori della Chiesa cattolica, partigiani, funzionari di polizia, impiegati degli uffici statali, partigiani.

Villa Emma

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco, l’associazione divenne clandestina, ma non interruppe la sua attività.

Una delle operazioni più note organizzate dalla DELASEM in Italia fu quella di villa Emma a Nonantola presso Modena. La villa era appartenuta ad un ricco ebreo che però era stato costretto a venderla. La DELASEM la affittò e a più riprese vi ospitò bambini e ragazzi. I primi quaranta erano tedeschi e austriaci che giunsero nel 1942, dopo aver attraversato la penisola balcanica a tappe e dopo aver ottenuto il visto di ingresso in Italia dal Ministero degli Interni. Il secondo gruppo, formato da trentatré ragazzi serbo-croati arrivò nel 1943. La vita si svolse più o meno senza incidenti finché non cominciarono i rastrellamenti, allora i clandestini, di cui tutti sapevano, furono nascosti dagli abitanti del luogo o nel seminario. Tuttavia la situazione era comunque pericolosa, così si decise di portarli tutti in Svizzera dove arrivarono sani e salvi. Solo uno, Salomon Papo, che era stato ricoverato in sanatorio perché tubercolotico, fu catturato e deportato ad Auschwitz, dove morì.

Nell’azione di salvataggio dei civili ebbe un ruolo significativo anche la ditta Olivetti, dagli anni Trenta nelle mani di Adriano, una specie di Shindler, che si circondò di dirigenti in buona parte ebrei e contribuì a nascondere correligionari, inglesi fuggiaschi o paracadutati sulla penisola e sovvenzionò partigiani.

Passiamo ora a parlare della “resistenza armata”, sempre ad opera degli ebrei. Essa fu attuata nei ghetti, nei campi di concentramento e di sterminio, in seno alle formazioni partigiane delle nazioni occupate, all’interno dell’esercito britannico con la “brigata ebraica”, con formazioni autonome.

I ghetti interessati furono numerosi, fra cui quelli di Bialystok, Vilnius, Varsavia.

La rivolta più nota, oltre che la prima urbana nell’Europa occupata, è quella del ghetto di Varsavia, dove tra luglio e settembre 1942 le autorità tedesche deportarono o uccisero circa 300.000 ebrei destinandoli a Treblinka o ai lavori forzati. Ufficialmente 35.000 prigionieri rimasero nel ghetto, ma clandestinamente ce ne furono altri 20.000.

A seguito di questa operazione gli ebrei crearono l’Organizzazione Combattente Ebraica (ZOB) con 500 combattenti a cui si affiancò l’Unione Combattente Ebrea (ZZW), formata dai membri del Partito revisionista, a cui avevano aderito sionisti di destra, con 250 uomini. Le due formazioni non erano certo simili, ma decisero di unire le forze per opporsi alla distruzione del ghetto. Per avere maggiori possibilità di riuscita si contattò il movimento clandestino polacco (Esercito nazionale), da cui si ottennero, sia pure in quantità limitate, armi ed esplosivi.

Nel gennaio del 1943, mentre un gruppo da deportare convergeva verso il punto di raccolta, alcuni combattenti si intrufolarono nella fila e cominciarono a sparare contro le guardie, dando a molti la possibilità di fuggire.

I tedeschi fermarono le deportazioni e gli abitanti del ghetto cominciarono a costruire bunker e rifugi dove si nascosero in gran parte.

Quando le operazioni di sgombero ripresero, il 19 aprile 1943, Mordecai Anielewicz con i suoi uomini della ZOB ripresero i combattimenti, ma furono quasi tutti uccisi e il ghetto raso al suolo in tre giorni, anche se alcuni uomini continuarono a dare battaglia ancora per mesi.

Marek Edelman, vicecomandante degli insorti, nei suoi appunti ricorda come inizia la lotta, anche se in tutti c’è la coscienza che il confronto sia comunque impari.

LETTURA DA “IL GHETTO DI VARSAVIA LOTTA”

pagg. 88-90

Anche i campi di sterminio (Treblinka, Sobibór, Auschwitz) videro nascere al loro interno tentativi insurrezionali, nonostante la consapevolezza dei cospiratori che molto probabilmente tutti o quasi sarebbero andati incontro alla morte.

Ad Auschwitz la rivolta ordita dagli uomini dei “Sonderkommando” scoppiò il 7 ottobre 1944. Costoro erano ebrei selezionati tra i più giovani e robusti che dovevano accompagnare i destinati alla camera a gas, farli spogliare, farli entrare nella camera a gas e, una volta che erano morti, tagliare i capelli, estrarre i denti d’oro, raccogliere gli indumenti e, infine, infilare i corpi nei forni crematori per poi raccogliere le ceneri.

Il 23 settembre 1944 erano stati eliminati circa 200 uomini del Sonderkommando. Gli altri sapevano che presto sarebbe stato il loro turno, perché, in quanto testimoni pericolosi venivano periodicamente uccisi. Perciò con l’aiuto di quattro ebree polacche, che lavoravano nella fabbrica di munizioni Union, avevano preparato delle granate con l’esplosivo sottratto.

Il 7 ottobre a mezzogiorno era in atto una riunione degli uomini del crematorio IV, quando le SS, a conoscenza della cospirazione, cominciarono a circondare il posto. Il Sonderkommando però riuscì a distruggere i forni e le esplosioni spinsero all’azione anche gli uomini del Crematorio II, mentre quelli delle strutture III e V furono fermati.

Mentre infuriava la lotta 250 detenuti riuscirono a fuggire ma, rifugiatisi in un vicino granaio furono uccisi col fuoco.

Le ragazze che avevano procurato l’esplosivo furono impiccate.

Per quanto riguarda la resistenza partigiana e l’attività svolta in essa dagli ebrei, si deve parlare di modalità diverse distinguendo, seppur genericamente, tra Europa occidentale e Europa orientale. Infatti le due comunità avevano raggiunto un diverso grado di assimilazione, molto più consistente in occidente. Inoltre anche le politiche di discriminazione e persecuzione messe in atto contro di loro ad est cominciarono subito dopo l’inizio della guerra, ad ovest dal 1942. Per tali motivi in Europa occidentale gli ebrei entrarono a far parte delle formazioni partigiane che erano state create dai diversi partiti e movimenti politici, di solito preferirono le bande comuniste o azioniste (in Italia) e solo in alcuni casi, ad esempio in Francia, diedero vita a movimenti resistenziali specifici. Ad est, invece, le unità ebraiche furono molto spesso formate da fuggitivi dai campi di concentramento e di sterminio che si rifugiarono nelle fitte foreste locali, collaborando ma non unendosi alla resistenza nazionale. Questi resistenti spesso si introducevano di nascosto nei luoghi di detenzione e facevano uscire chi poteva sopportare la vita partigiana.

In Italia il contributo degli ebrei alla lotta armata, praticata soprattutto in Italia settentrionale e principalmente in Piemonte, fu molto significativo, tanto è vero che i combattenti furono circa 2.000, pari al 4 per cento della popolazione ebraica, percentuale superiore a quella dei non ebrei, e ricoprirono ruoli importanti all’interno della Resistenza. Fra i più noti ricordiamo Primo Levi, Elio Toaff, Vittorio Foa, appartenente a Giustizia e Libertà, Leo Valiani, azionista, Emilio Sereni, comunista, e Umberto Terracini che nel 1944 fu segretario della Giunta provvisoria della Repubblica dell’Ossola e nel 1947 presidente dell’Assemblea Costituente.

Enrico Loewenthal, che combatté in varie formazioni, ricorda come, dopo l’8 settembre 1943, alcuni torinesi decisero di opporsi all’occupazione nazista e di combatterla con la guerriglia:

LETTURA DA “MANI IN ALTO, BITTE”

Pagg. 67-68

Ad est, a partire dalla Polonia, attaccata il 1° settembre 1939 e in un primo tempo soggetta a esecuzioni sommarie che colpirono non solo gli ebrei, ma anche gli intellettuali, nonostante i dirigenti ebraici fossero contrari, per timore di ritorsioni, i giovani si organizzarono per dare vita alla resistenza armata. Essi collaborarono spesso con la resistenza russa o polacca, anche se i rapporti non sempre furono proficui, anzi a volte l’antisemitismo diffuso anche tra i partigiani fece sì che venissero osteggiati o addirittura uccisi.

Una particolare forma di resistenza si sviluppò in Bielorussia, ricoperta da foreste molto fitte e perciò difficili da attraversare da parte dei nazisti che tra l’altro non conoscevano i luoghi come la gente del posto. Perciò alcuni ebrei fondarono bande autonome che, oltre a combattere gli invasori, salvarono intere famiglie creando i cosiddetti campi familiari.

Particolarmente attiva fu la brigata partigiana dei fratelli Bielski: Asael, Tuvia, Zus e Arczyk, il più piccolo che aveva quattordici anni. Costoro riuscirono a salvare circa 1.200 ebrei e, contrariamente a quanto accadeva presso altre unità che accoglievano solo giovani, possibilmente armati, accettarono tutti, anche vecchi, donne e bambini, poiché ritenevano che fosse più importante salvare un ebreo che uccidere un tedesco.

Ecco come Nechama Tec ricostruisce l’arrivo di un gruppo presso il campo dei Bielski:

LETTURA DA “GLI EBREI CHE SFIDARONO HITLER”

Pagg. 1-2

Essi si spostavano continuamente per evitare di essere individuati dal nemico, ma ogni volta costruivano dei veri e propri campi con rifugi in parte sotterranei e in parte esterni per trascorrere la notte e cucine, magazzini, laboratori per servire la comunità, ma anche per rifornire i partigiani sovietici la cui protezione era importante per sopravvivere. L’organizzazione fu particolarmente complessa nell’ultimo campo costruito prima della fine della guerra nella foresta di Nalibocka, come appare evidente dalla cartina qui riportata e dalla descrizione di Nechama Tec:

LETTURA DA “GLI EBREI CHE SFIDARONO HITLER”

Pagg. 142-143

Per terminare, ricordiamo anche il contributo della Brigata Ebraica.

Già nel 1939, alla vigilia del conflitto mondiale, Chaim Weitzmann, leader del Movimento Sionista, aveva informato la Gran Bretagna che gli ebrei palestinesi avrebbero collaborato con gli inglesi contro i nazisti.

L’Inghilterra, che dal 1920 esercitava il protettorato sulla Palestina su mandato della Società delle Nazioni, non si mostrò entusiasta della proposta, sia perché temeva la reazione araba, sia perché sapeva del desiderio dei sionisti di fondare uno stato indipendente nel luogo da cui molti secoli prima era partita la diaspora a seguito della distruzione del tempio di Gerusalemme. Nonostante ciò su 550.000 ebrei residenti in Palestina, ben 30.000 uomini e donne si presentarono come volontari.

Nel 1941, diventando la guerra molto impegnativa, i britannici cominciarono a reclutare palestinesi, sia arabi che ebrei, che poi formarono il Palestine Regiment. Gli arabi non rimasero a lungo in esso, sia per gli attriti esistenti tra i due gruppi, sia perché nel frattempo il Gran Muftì di Gerusalemme aveva aderito alla politica hitleriana. Oltre a ciò nacquero unità ausiliarie, di 250 elementi ciascuna, il cui personale specializzato sarebbe stato usato in caso di necessità. Infatti, poiché provenivano dai kibuzim (fattorie agricole comunitarie) e dalla Haganà (organizzazione militare per la difesa degli ebrei in Palestina), aiutarono come combattenti, ma anche come soccorritori degli scampati alla shoah.

La vera e propria Brigata Ebraica si formò nel novembre del 1944 con il consenso del primo ministro inglese Winston Churchill e, sbarcata in Italia, vi combatté per circa sette settimane soprattutto lungo la linea gotica, per sbarrare la strada della pianura padana all’esercito tedesco.

Questi combattenti, dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948, furono preziosi per costituire l’esercito israeliano e per addestrare le nuove reclute.

Dell’appoggio del primo ministro inglese fanno fede le lettere che Weitzmann e Churchill si scambiarono sull’argomento:

LETTURA DA “LA BRIGATA EBRAICA IN ROMAGNA”

Pag.22

BIBLIOGRAFIA

AA.VV.: Storia della shoah

AA.VV.: La shoah dei bambini

Arendt Hannah: La banalità del male

Artom Emanuele: Diari di un partigiano ebreo

Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (a cura di): Ebrei in Italia: deportazione, resistenza

Idem: Aspetti di una resistenza ebraica al nazismo. Comunicazioni visive dai campi di concentramento

Chiappano Alessandra: Voci della resistenza ebraica italiana

Edelman Marek: Il ghetto di Varsavia lotta

Formiggini Gina: Stella d’Italia, stella di David

Haffner Sebastian: Un tedesco contro Hitler

Loewenthal Enrico: Mani in alto, bitte

Mentana Enrico – Segre Liliana: La memoria rende liberi

Milano Maria Teresa: Terezín

Meir Caro Luciano – Rossi Romano: La brigata ebraica

Quaderni del Museo Ebraico di Bologna: La Brigata Ebraica in Romagna 1944 – 1946

Ringelblum Emmanuel: Sepoplti a Varsavia

Szac-Wajnkranc Nöemi – Weliczker Leon: I diari del ghetto di Varsavia

Tec Nechama: Gli ebrei che sfidarono Hitler

Venezia Shlomo: Sonderkommando Auschwitz

Disegno di Marina Napoletano   “Il cielo era vuoto…” 2020

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Leonardo da Vinci- La Gioconda

Corrado Mauri

“La deità che ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina”

Pensando alla nostra sezione “Capolavori” non poteva mancare, con le celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Leonardo, un’opera di questo personaggio storico alquanto problematico da definire, artista senza alcun dubbio, ma uomo pervaso da un costante ed enorme spirito di conoscenza, verso il Tutto, che lo rende non solo unico, ma anche, apparentemente, distante.

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La shoah in Italia (Marina Napoletano)

Le origini dell’antisemitismo

La principale fonte di notizie sul popolo ebraico è la Bibbia, anche se questo libro non è stato concepito come narrazione storica, bensì come costruzione teologica. Tuttavia è dalla sua lettura che possiamo ricavare le notizie delle vicende che riguardarono gli Ebrei nell’antichità.

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L’ANNUNCIATA DI ANTONELLO DA MESSINA

di: Corrdo Mauri (aprile 2019)

È nell’attuale mostra su ANTONELLO DA MESSINA a Palazzo Reale di Milano, (21 febbraio- 2 giugno 2019) vista più volte, che ho sentito la necessità di approfondire lo studio sull’Annunciata e capirla di più, anche per la Conferenza del 3 aprile su “Antonello da Messina, artista europeo” che ho tenuto a Palazzo Arese Borromeo. Ma, anche perché nella mostra milanese viene, inspiegabilmente, del tutto ignorata la fase della formazione di Antonello che è assolutamente indispensabile se si vuole capire Lui come uomo e come artista, una grave lacuna e mancanza.

L’Annunciata di Antonello da Messina è un capolavoro che va ben oltre i limiti della religione e coinvolge i valori stessi del senso del vivere.  È una concreta raffigurazione di coscienza di se stessi, del proprio ruolo e di ciò che si sta compiendo.  Il che nella rappresentazione del tema dell’Annunciazione è una assoluta novità.

Siamo nella piena maturità di Antonello, che usa tutte le sue capacità, in modo del tutto autonomo ed indipendente.  Basta osservare la serie dei suoi straordinari ritratti, altra effettiva e concreta novità, in cui è immediato l’impatto col carattere di ogni singolo personaggio.  Del resto la sua evoluzione artistica, necessariamente porta a questi risultati, ovviamente non solo per il particolare talento di Antonello, ma per il suo continuo riflettere, per il suo chiedersi cosa sta dipingendo, per il suo voler capire, prima di eseguire, cosa deve esprimere.

Analizzando la produzione artistica di Antonello si prende atto della sua capacità di riassumere le diverse caratteristiche degli stili pittorici di vari paesi, fondendoli in una visione figurativa che sarà determinante e punto di riferimento imprescindibile per la produzione artistica a lui contemporanea e successiva, in particolare, poi, a Venezia.  Questo si rende possibile per quei fondamentali e regolari scambi commerciali e culturali con le Fiandre, in Francia con Borgogna e Provenza, in Spagna con Aragona, Catalogna e Valencia, le Repubbliche di Venezia, Firenze e Milano nonché lo Stato della Chiesa un insieme di cui l’artista siciliano è stato testimone e partecipe nella fase della sua formazione a Napoli, all’interno della bottega di Colantonio, all’epoca di Renato D’Angiò e poi di Alfonso II D’Aragona. Ha ben conosciuto i diversi stili pittorici, da quello fiammingo di Yan Van Eych e Petrus Christus, quello provenzale con Barthelemy d’Eych, Enguerrand Quarton e Jean Fouquet a quello aragonese valensiano di Jacomart Baco e J.P. Reixach.  Con la conoscenza ed il contatto con l’arte toscana, in particolare la pittura di Piero della Francesca e non ultima la scultura del dalmata Francesco Laurana (che lavora anche in Sicilia) crea, appunto, una pittura pienamente rinascimentale.  Ed è proprio in questo senso, per la sua specifica capacità di rielaborare queste varie esperienze che si può parlare e godere di una visione artistica che possiamo dire prettamente  europea. L’insieme di specifiche conoscenze, che vanno al di là di una visione localistica, gli permettono di cogliere l’essenzialità della natura umana e dei racconti o narrazioni delle singole storie, sempre strettamente legate alla realtà.  A questo si giunge dalla chiara e attenta lettura del suo stile maturo, di cui l’Annunciata è uno degli apici, purtroppo non sorretta da alcuna documentazione storica, totalmente mancante, a seguito del tragico terremoto di Messina del dicembre 1908, che ha distrutto non solo sue opere, ma gli archivi storici (una piccola parte, per fortuna, era stata trascritta).

Un elemento, che ritengo determinante per la formazione del suo stile è la conoscenza di Piero, questa la si deduce stilisticamente, per il modo di costruire architettonicamente e geometricamente le scene e le figure e per la concezione unitaria della luce. Visti i lunghi periodi privi di qualsiasi documentazione e notizie, dal 1450 al 1456 e dal 1465 al 1470, la probabilità che abbia compiuto viaggi a Roma (dove Piero ha dipinto nei palazzi Vaticani) e in Toscana è decisamente alta, su questo tema gli storici dell’Arte sono in eterno dibattito.

Quando decide di affrontare un determinato soggetto lo analizza profondamente, lo elabora poi nel corso degli anni ed affrontandolo ripetutamente ne rinnova l’interpretazione. Questo succede con le Annunciazioni.

I presupposti di questo soggetto li possiamo individuare in tre opere attribuite ad Antonello ma, recenti analisi danno l’autografia ad altri pittori.  Si tratta di raffigurazioni di Maria da sola, a mezzo busto e in due di queste sta leggendo un libro, azione che, tradizionalmente, svolge prima dell’arrivo improvviso dell’Arcangelo Gabriele e dipinta nella maggior parte delle rappresentazioni dell’Annunciazione.

Virgo advocata (1) della bottega di Jacomart Baco e P. J. Reixach, la Vergine leggente  (2) di pittore valenzano della collezione Mino Forti che, nel dicembre 2018, viene donata al Museo Poldi Pezzoli di Milano ed altra Vergine leggente (3)si pensa ad un probabile collaboratore siciliano di Antonello, del Walter Art Museum di Baltimora, tutte presentano elementi stilistici riscontrabili nelle opere del giovane Antonello e connotano stretti rapporti con le pitture fiamminga, valenzana e provenzale.

È impossibile sapere quante volte Antonello abbia dipinto delle Annunciazioni, considerando che oggi abbiamo solamente 35 opere a lui confermate,  prodotte nell’arco di una trentina di anni di effettivo lavoro, (la sua data di nascita è calcolata al 1430 e la morte documentata al febbraio 1479 all’età di 49 anni). È più che ovvio che tale numero è assolutamente poco, abbiamo perso almeno il doppio di quanto ci è rimasto.  Basta pensare alla produzione di “stendardi”, i dipinti (di cui si hanno notizie concrete) prodotti costantemente ed in buon numero dalla sua bottega. 

Tornando alle Annunciazioni, la prima che ci è pervenuta, fa parte del registro superiore del Polittico di S. Gregorio, ora nel Museo Regionale di Messina, unica opera rimasta nella sua città natale e della quale ci sono rimasti solamente 5 scomparti, ulteriormente e tragicamente danneggiati dal terremoto del 1908.

È una commissione, fatta ad Antonello dalle monache benedettine del Convento di S. Maria extra moenia per la loro chiesa, dedicata a S. Gregorio. La chiesa fu abbattuta per dare spazio alle nuove mura della città ed il Polittico fu trasferito in Calabria. Rientra a Messina intorno al 1570 nella nuova chiesa ma probabilmente già smembrato e senza la cornice originale, nel 1923 viene recuperato un documento che fa riferimento ad un pagamento (in natura: vino) per il Polittico con la data del 1473.

I due personaggi dell’Annunciazione sono dipinti in due scomparti separati, a sinistra: l’angelo di profilo col gesto benedicente della mano, labbra socchiuse mentre pronuncia il saluto, tunica scura ed un manto bianco da cui, con sconcertante naturalezza e identico colore della stoffa, sporge l’ala. Nel suo scomparto Maria, diversamente dall’angelo è posta non al centro ma sulla destra, in un interno, purtroppo, non più comprensibile ma, grazie ad un disegno di Giovan Battista Cavalcaselle (studioso d’Arte dell’ottocento, che sui suoi taccuini disegnava e prendeva nota di tutti i particolari, il primo a ricercare con acribia le opere di Antonnello e redigere il suo primo catalogo) possiamo capire che è in piedi con le braccia incrociate sul petto, il capo reclinato, gli occhi abbassati intenti nella lettura del libro collocato sul leggio, difronte al quale spuntano dei garofani. È in atteggiamento apparentemente concentrato ma le braccia rimarcano l’accettazione dell’evento sovrannaturale che le viene comunicato. A dare realtà al contesto è una balaustra, che lega i due scomparti ed è vista dal sotto in su, tant’è che i libri di Maria, lì appoggiati, sporgono da essa.

Nei tre pannelli centrali se osserviamo l’insieme dello spazio, vediamo come questo è perfettamente misurato dalla prospettiva il cui unico punto di fuga non è centrale ma, a destra del trono della Madonna, il cui basamento prosegue senza interruzioni nei pannelli laterali con S. Gregorio Magno e S. Benedetto, entrambi si posizionano di tre quarti rivolti alla Madonna, illuminati puntualmente da sinistra a destra, marcati dalle ombre ed i loro piedi sporgono dal gradino a segnare uno spazio vero.  Il Polittico non è costruito più secondo la concezione gotica astratta, è uno spazio preciso, unico, a dimensione umana, una costruzione prospettica rinascimentale che rispecchia la grande trasformazione culturale, già in atto da decenni in Italia, non solo con Piero della Francesca, ma con Donatello in S. Lorenzo a Firenze e a Padova o con Mantegna nel Polittico di S. Luca del 1453, ora a Brera. 

Grazie ad un altro disegno del Cavalcaselle ritroviamo un’altra Annunciazione all’interno di un altro Polittico distrutto dal terremoto del 1908, era quello di S. Nicola, copiato nel 1620, ma senza rispettare  i particolari e la struttura originale. L’Annunciazione era raffigurata sulla stola del santo, tra la mano benedicente e appena sopra il libro che teneva con la mano sinistra (pagina destra del taccuino).

Una tradizionale Annunciazione di Antonello è quella della Chiesa, appunto, dell’Annunziata a Palazzolo Acreide, una quarantina di km a ovest di Siracusa. Anche questo dipinto ha una storia complessa e ha subito gravissimi danni su tutta la superficie pittorica in specie alla sua base, il contratto originale è stato trascritto prima del terremoto.

Non è qui il luogo di approfondire l’analisi di questo dipinto, alquanto complesso, dove ritroviamo, nel 1474, ancora puntuali riferimenti alle sue esperienze con la pittura fiamminga degli anni giovanili ma che risente ovviamente della  sintesi successiva: l’alternarsi di luci interne ed esterne, la colonna con elementi quasi classici, le posizioni dell’angelo e di Maria sono praticamente uguali a quelle del Polittico di S. Gregorio, se non per le figure che sono intere e per Maria che è seduta.

Credo sia opportuno, a questo punto, osservare alcuni dipinti che rappresentano delle Annunciazioni, prendendo atto delle persistenze di atteggiamenti sia dell’angelo, sia di Maria e riscontrando una costante aderenza al tema ed ai testi religiosi, in particolare il Vangelo di Luca, l’unico che narra dell’Annunciazione.   

Pur con interpretazioni personali dei singoli artisti si riscontra in generale un atteggiamento, in piedi od inginocchiato, di grande rispetto ed omaggio dell’Arcangelo Gabriele nei confronti di Maria Vergine, più articolate le pose della fanciulla, solitamente sorpresa dall’apparire improvviso dell’angelo, spaventata come il gatto nell’Annunciazione del Lotto, mentre è intenta nella lettura o, già, in atteggiamento di partecipata accettazione del ruolo a cui viene chiamata. Quasi costante è la presenza della colomba dello Spirito Santo, in buona parte accompagnata dallo stesso Padreterno.  La narrazione è sempre inserita in ambienti architettonici di notevole bellezza e ricchezza (il riferimento è alla casa di Davide) con strettissimo rapporto con la natura e il giardino, l’hortus conclusus.

Quando Antonello riprende questo soggetto, probabilmente per un dipinto di devozione su commissione, ma non escluderei che l’Annunciata possa anche essere un dipinto creato autonomamente, per concretizzare una propria e specifica idea, lo risolve in modo assolutamente originale, determinando una nuova iconografia. Affronta il tema come fosse un ritratto, accantonando tutta la tradizione antecedente. Elimina completamente le presenze: dell’Arcangelo Gabriele, della colomba come Spirito Santo e del Padreterno. E direi che non è poco!  La stessa Maria è raffigurata a mezzo busto in uno spazio esclusivo ed anonimo ma perfettamente a sua misura con uno sfondo nero che esalta la luce e mantiene il senso di spazio, cioè che accoglie e non chiude. Nel costruire la scena Antonello usa puntualmente la prospettiva con grande attenzione.

Infatti le linee del piano e del leggio vanno ai punti di fuga sulla linea d’orizzonte, quindi verso il fondo nero che non è parete ma spazio reale in cui stanno le cose. Maria è come un’architettura, è posta centralmente sull’asse verticale che ha in linea: la piega del manto sul capo, il naso e lo spigolo del tavolino su cui poggia il leggio. La figura non è posta frontalmente, sia nel volto che acquisisce, così, una maggior plasticità dall’accentuazione delle ombre, sia nel busto, che con una lieve ed ulteriore rotazione amplia la misura della spalla destra rispetto a quella di sinistra, di conseguenza lo spazio posteriore non risulta uguale e simmetrico, offrendoci la voluta sensazione di un luogo vero e reale e quindi non ideale. Ma altri giochi lineari legano la figura al contesto prospettico, la mano sinistra nel suo importante gesto di chiudere il manto, di cui capiremo il  fondamentale significato, pone le nocche delle dita su una linea verticale che coincide esattamente con lo spigolo del leggio; la linea compositiva determinata dalla continuità tra il piano inclinato del leggio e le pagine del libro è perfettamente parallela all’asse orizzontale di inclinazione della mano destra. Ecco come, mettendo in rapporto geometrico le varie componenti dell’opera, si percepisce l’indispensabile unitarietà del dipinto, con la logica conseguenza della sua pregnanza di significati ricercati e voluti. La definizione dello spazio che contiene Maria ne accentua la sua indefinita immobilità, da qui anche quel senso di calma che percepiamo ma che trattiene il turbine di emozioni e pensieri che travolgono interiormente questa fanciulla. Antonello fa assumere allo splendido volto di Maria, (un ovale che rimanda a Piero della Francesca e alle teste scolpite di Francesco Laurana) che potremmo dire di classica popolanità, una espressione imperturbabile, in particolare, negli occhi che osservano puntualmente verso destra ed in basso, è indubbio che ha di fronte l’Arcangelo Gabriele che gli ha appena rivolto il saluto “Ave Maria, piena di grazia”, ed è proprio in questo  suo particolare sguardo che sentiamo la presenza fisica dell’angelo.

Qui vorrei soffermarmi un momento sulla lettura che viene fatta da buona parte degli storici o critici d’Arte, e cioè che Antonello, per mezzo dello sguardo di Maria coinvolge noi, osservatori, al posto dell’angelo. No: Maria ci coinvolgerebbe se ci guardasse direttamente, ma non lo fa, guarda un punto ben preciso più in basso, la sua azione è ben cosciente e chiara. Certamente, noi siamo coinvolti emotivamente ed intellettualmente davanti a questo assoluto capolavoro ed apice dell’Arte, non può essere altrimenti indipendentemente dal dato religioso.

 Ed allora, ecco che a sostenere la forza di questo sguardo, a motivarlo ed a rendercelo comprensibile contribuisce l’unitarietà della composizione legando strettissimamente occhi e mani. Ogni mano compie un gesto preciso e significante. La mano sinistra reagisce, all’apparizione, immediatamente accostando e chiudendo il mantello, in un atto istintivo e naturale di protezione, mentre riflette “rapidamente” sulle parole appena ascoltate ed allora solleva la mano destra (mano che Roberto Longhi definiva “la mano più bella che io conosca nell’Arte”) ed è come un invito rivolto all’angelo di fermarsi un momento, lei deve pensare per compiere la scelta con coscienza. In tal senso il gesto è inequivocabile, è il gesto di chi ferma, di chi sospende ciò che avviene davanti a lei, durerà anche un momento il valore di tale atto ma avviene.

Tutti puntualizzano quanto la mano dà, sottolinea, fende prospetticamente lo spazio, uno spazio che si fa autentico ed è lo spazio rinascimentale, indubbiamente ma l’Annunciata di Antonello da Messina è la donna che acquisisce coscienza e padronanza di sé nell’arco di pochi attimi, proprio compiendo fermamente quel gesto. Il suo volto è severo, non esprime commozione, timore o imbarazzo, le labbra sono serrate senza alcuna inclinazione, c’è la possibilità di un potenziale lieve sorriso. Qui è la fanciulla Maria che diviene donna, decide di sé, con una forza interiore che la rende di notevole bellezza ed espressione di assoluta “verità”.  È questa l’Annunciata di Antonello, una totale novità, il frutto della riflessione sulla sequenza dei singoli momenti di una storia, di un evento che segnerà la storia dell’uomo: inevitabilmente.

Antonello si chiede cosa avviene nell’intimo del personaggio che vuole rappresentare ecco la straordinarietà di tutta la sua unica ed eccezionale ritrattistica: di Maria lui sta dipingendo il ritratto, non sta facendo l’immaginetta, quindi la interpreta .

Antonello da Messina legge, capisce e decifra il testo evangelico di Luca momento per momento, solo quando Antonello termina questo dipinto, la narrazione prosegue ed accadrà che la Vergine chiederà: “Come è  possibile questo? Non conosco uomo” e l’angelo risponde “Lo Spirito Santo scenderà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra, perciò quello che nascerà sarà chiamato santo, figlio di Dio” ed ora, solo dopo questa frase, Maria pronuncia coscientemente “Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto”.   Ed allora Antonello dipingerà un’altra Annunciata, quella ora alla Alte Pinakothek di Monaco, dove si attua il momento culmine dell’Incarnazione.

Qui Maria incrocia le braccia sul petto, le mani sono aperte per prendere, accogliere, il volto è più frontale ma inclinato verso l’angelo e soprattutto le labbra sono socchiuse perché sta pronunciando la frase di accettazione dell’Annuncio, è cioè il momento, il fotogramma successivo a quello dell’Annunciata di Palermo, tant’è che è dipinta l’aureola, è ormai persona divina. Questa Maria è, rispetto a quella di Palermo, più mossa e articolata, meno perentoria ed assoluta formalmente, ma altrettanto fondamentale nella narrazione evangelica di Antonello, che qui rientra nella tradizione interpretativa. Sul piano stilistico, pur dando atto a diverse interpretazioni, tutt’ora in atto, siamo perfettamente nello stesso momento cronologico, intorno cioè al periodo veneziano 1475-6, qualcuno dice appena prima, qualcun altro appena dopo, ma è la straordinaria piena maturità di Antonello.

È il periodo della Pala di S. Cassiano e del S. Sebastiano. Guardate la mano della Madonna, anche questa segna, fende lo spazio ma, il palmo è rivolto verso l’alto e significa accoglienza, colloquio e apertura, l’opposto rispetto alla mano dell’altra Annunciata.

La maturità di Antonello è tale che gli permette di variare stilisticamente i propri capolavori sulla base delle idee e dei significati che vuole esprimere in ogni singola opera.

Ecco perché le due Annunciate vengono date in tempi diversi. Nella logica analisi di un’opera se questa è compositivamente più assoluta e perentoria, come quella di Palermo, è solitamente posta al vertice del percorso di ogni artista, il tendere alla sintesi è più che ovvio ma, per Antonello (e non solo) non è così ovvio, la sua acuta intelligenza gli fa usare le modalità pittoriche in base alle necessità espressive e di significato. L’Annunciata di Monaco nella sua articolazione più mossa, nei gesti ed atteggiamenti flessuosi, nel maggior uso della linea curva appare meno rigorosa, non è respingente. Qui non abbiamo il leggio, i libri, uno chiuso l’altro aperto, sono posti su un parapetto visti dall’alto, la stessa Maria è più bassa rispetto a quella di Palermo, e la diremmo seduta ma, potrebbe essere anche inginocchiata, secondo la tradizione. In una logica normale si assegnerebbe cronologicamente prima l’Annunciata di Monaco e dopo quella di Palermo. Personalmente sono convinto del contrario, come ho spiegato e nel rispetto della narrazione evangelica.  Anche Mauro Lucco sostiene questa cronologia, leggendola con una maggiore vivezza espressiva di cui gli ultimi suoi tempi  offrono esempi sublimi.

Antonello da Messina, come tutti i grandi artisti ha un concetto dell’uomo che va al di là dei tempi contingenti, ecco dunque che la sua Annunciata è anche molto moderna, è una donna di oggi, che ha finalmente acquisito coscienza di se stessa ed allora l’abbiamo accanto a noi, ci accompagna e partecipa nelle manifestazioni a favore delle donne, per l’affermazione dei propri diritti  e contro i femminicidi.

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Il meraviglioso mondo della natura

una favola tra Arte, Mito e Scienza

di: Corrado Mauri (maggio 2019)

Nella mostra di Palazzo Reale di Milano, l’attenzione si concentra su pochissimi casi esemplari, e fortemente spettacolari, della rappresentazione della Natura nell’arte della Lombardia dal Quattrocento al Seicento, sottolineando l’importanza che il soggiorno di Leonardo Da Vinci a Milano ebbe nel mutare in maniera radicale l’atteggiamento con cui gli artisti locali si accostarono alla rappresentazione del vero.

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QUANDO FOTOGRAFARE ERA DIVERSO, mostra

Recentemente, per esigenze di organizzare gli spazi nel mio studio di Cesano, ho spostato il consistente materiale fotografico del mio “vecchio” studio fotografico di Milano, che ho chiuso quando ho deciso di trasferirmi qui, in Brianza. É stato un tuffo nel passato, bello e nostalgico insieme, ma soprattutto riprendendo atto non solo della qualità di queste fotografie, ma del loro interesse oramai storico. Da qui il desiderio di farlo conoscere. Continua a leggere

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La shoah. Le donne (Marina Napoletano)

Lettura da Primo Levi – Se questo è un uomo

Quando ho pensato di affrontare il tema della shoah concentrandomi sul genere femminile, mi sono chiesta se l’approccio fosse corretto, visto che tutti, uomini e donne, avevano subito lo stesso trattamento venendo privati dei loro beni, della libertà, della dignità ed infine della  vita. Identico interrogativo si sono posti gli storici e le medesime vittime, dando risposte opposte in entrambi i gruppi. Tuttavia so che i moderni mezzi diagnostici hanno permesso ai medici di studiare le caratteristiche che distinguono i generi. Ad esempio, proponendo a uomini e donne monitorati attraverso la risonanza magnetica le stesse immagini o parole, si sono accorti che esse attivavano zone differenti del cervello, rivelando così una diversa reazione emotiva o intellettuale. Perciò ho pensato che fosse giusto entrare nello specifico del rapporto fra donne e shoah per analizzare il modo in cui vissero la realtà tragica e orrenda che fu il periodo nazifascista. Inoltre la stessa storiografia che, quando cominciarono ad essere rese le prime testimonianze, si era concentrata quasi esclusivamente sulle esperienze maschili, in seguito cominciò a prendere in considerazione la questione femminile, visto che la metà delle vittime era formata da donne.

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