Leonardo da Vinci- La Gioconda

Corrado Mauri

“La deità che ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina”

Pensando alla nostra sezione “Capolavori” non poteva mancare, con le celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Leonardo, un’opera di questo personaggio storico alquanto problematico da definire, artista senza alcun dubbio, ma uomo pervaso da un costante ed enorme spirito di conoscenza, verso il Tutto, che lo rende non solo unico, ma anche, apparentemente, distante.

Nonostante i miei ormai sessant’anni di studio della Storia dell’Arte, devo confessare e prendere atto che la Gioconda è stata una di quelle opere che non mi hanno mai attratto in modo particolare, solo recentemente ho iniziato a riguardarla, ad approfondirne l’analisi rendendomi conto del suo straordinario valore, che va ben al di là di quelli meramente artistici.  Nel proporre una serie di Conferenze su Leonardo a Palazzo Arese Borromeo, mi sono riletto le varie decine di libri su di lui della mia biblioteca, ovviamente aggiornandomi, poi, con i nuovi studi, proposte ed ipotesi di studiosi “affidabili” di recente pubblicazione.  Ho dovuto constatare che con le celebrazioni di quest’anno il povero Leonardo ne ha subite di “tutti i colori”, che per un artista non sarebbe anche male, ma i suoi lunghi e bianchi capelli sono stati tirati da tutte le parti, con risultati anche ampiamente disastrosi.  In particolare, alcuni pseudo e presunti storici dell’Arte hanno proposto letture dell’opera leonardesca che gridano vendetta.  Ed allora capisci come, lo stesso Leonardo, concentrando nella fase finale della sua vita gli studi sui diluvi, magari li intendeva anche come doveroso giudizio finale su una buona parte dell’umanità, o chi come lui stesso li definisce, “i trombetti”.

Valutando i 67 anni di vita di Leonardo, oggi, come sue abbiamo circa una ventina di opere dipinte, con alcune attribuzioni controverse, vedi il Salvator Mundi e alcune opere certe andate perdute, quindi una produzione alquanto scarsa ma, dobbiamo tener conto però, della sterminata produzione di disegni, che ha eseguito quasi quotidianamente, e della quale ci è pervenuta con buona probabilità forse la metà, e questo vale anche per i suoi importantissimi Codici, che affrontano le numerose materie ed argomenti da lui studiati. 

Quattro dei suoi dipinti sono ritratti femminili: la Ginevra Benci, le due Dame milanesi Cecilia Gallerani (la Dama con l’ermellino) e Lucrezia Crivelli (la Belle Ferroniere) e la Gioconda.

Nell’immagine che riassume i ritratti, collocati cronologicamente, immediatamente risaltano le caratteristiche fondamentali dell’arte di Leonardo ma, anche, quanto la Gioconda si distacca dalle altre sia stilisticamente, sia soprattutto idealmente.

Delle prime tre sappiamo esattamente chi sono le donne ritratte e sono dipinte in tempi abbastanza contenuti per quella che è l’interminabile tempistica leonardiana, grande problema di tutti i suoi committenti: 1475-78 per la giovanile Ginevra Benci (Leonardo lo inizia a 23 anni), 1488-89 per la Cecilia Gallerani e 1494-97 per la Lucrezia Crivelli.  Le date sicure nella sua produzione artistica sono poche: 8 agosto 1473 per un disegno di paesaggio, l’unico che reca la data di mano di Leonardo, o la Vergine delle Rocce con contratto del 25 aprile 1483, il resto è per deduzioni legate ai committenti, a situazioni ambientali o storiche, come il Cenacolo o la Sala delle Asse del Castello Sforzesco.

Per Leonardo l’analisi del singolo elemento o fenomeno, che pone poi in rapporto con altri similari per dedurne i comportamenti e gli effetti, è il modus operandi quotidiano, tanto che si definisce ”discepolo della esperienza”.  La Pittura è lo strumento di analisi e conoscenza fondamentale, di cui rivendica il primato e che definisce “cosa mentale” dimostrando che è anche filosofia e scienza “legittima figlia della natura e parente d’Iddio”.  La Pittura e la Musica per Leonardo sono “figurazione dell’invisibile”, alla raffigurazione della realtà vanno integrate le forze invisibili e spirituali, cioè le leggi della natura “maestra dei maestri” e gli “stati d’animo”. Questi ultimi, in particolare, sono parte significativa degli insegnamenti acquisiti nella bottega del Verrocchio, sin da giovanissimo. “Il buon pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l’omo e il concetto della mente sua”.  Da tutto questo si concretizza la sua puntuale attenzione ad ogni particolare dell’opera che dipinge, indipendentemente dal soggetto.

Nel ritratto di Ginevra Benci questa attenzione è ben evidente sia nello sfondo con i singoli aghi della pianta di ginepro, che allude al nome della dama, sia nei biondi capelli, che, lisci sulla nuca, esplodono nei riccioli delle due fasce che incorniciano il volto, secondo la moda dell’epoca. Ogni capello è dipinto singolarmente con straordinaria attenzione in un gioco di riflessi sensibile al variare della luce che viene dall’alto. Anche nei particolari dell’abito la definizione è straordinaria nella bordatura con ricamo dorato e nelle luci ed ombre del nastrino azzurro che si infila negli occhielli dove i riflessi mutano in base all’inclinazione. Questo insieme è accentuato dal pallore del severo volto della dama che ci osserva con sguardo distante.

Il ritratto è purtroppo mutilo nella parte inferiore, dove erano presenti le braccia: a confermarlo sul retro della tavola è dipinto un emblema vegetale, tagliato appunto nella parte bassa e un cartiglio col motto “Virtutem forma decorat”. Ma sotto la scritta ve ne era un’altra “Virtus et honor” che è il motto di Bernardo Bembo, ambasciatore di Venezia a Firenze, col quale Ginevra, pur sposata, aveva una relazione platonica. Questa la probabile causa della malinconica espressione: i “moti dell’animo”. 

Nel periodo milanese (1482 – 1499) Leonardo dipinge due ritratti di dame, uno con la Cecilia Gallerani e l’altro con la Lucrezia Crivelli, entrambe, in tempi successivi, amanti di Ludovico il Moro. Anche qui l’attenzione ai particolari non viene meno, ma si accentua con evidenza la necessità di dimostrare nei gesti, nell’atteggiamento o movimento spontaneo lo stato psicologico, il sentimento del personaggio che non si mette in posa ma è autenticamente se stesso. Leonardo coglie la reazione vera ad un evento, ad una situazione, ad un sentire particolare.

Infatti, la Gallerani viene colta, mentre sta posando, come di sorpresa dall’arrivo di qualcuno, che è al di fuori del quadro, al quale volge la testa e lo sguardo, ma anche l’ermellino, che la dama tiene in braccio (è un chiaro riferimento al Moro che è stato insignito dall’ordine dell’Ermellino dal re di Napoli ed animale che simboleggia anche moderazione e castità), ha una reazione improvvisa, tant’è che una sua unghietta rimane impigliata nel risvolto della manica dell’abito di Cecilia.  Il poeta di corte, il fiorentino Bernardo Bellincioni cita il dipinto: “La fa che par che ascolti, e non favella”.  Dunque, un ritratto vivo, al naturale, che innova completamente la tradizionale concezione del ritratto che solitamente ha la figura colta di profilo ed inerte. Va detto che dei precedenti sono riscontrabili nella pittura di Jan Van Eych e di Antonello da Messina.

Nella Lucrezia (che con il Moro ha un figlio, pur essendo dama di corte di Beatrice, moglie del duca) i “moti dell’animo” si concentrano nello sguardo intenso e profondo, la donna guarda alla destra di chi osserva il dipinto, sottolineando una realtà oltre. Compatte e praticamente uguali le capigliature dei due ritratti, tese a rimarcare gli ovali dei volti, lievemente più allungato quello della Cecilia. L’attenzione ai singoli raffinati elementi dell’abito e della collana è costante, ma mai viene meno l’effetto d’insieme, che ha nella luce il suo cardine e rivela una straordinaria sensibilità nel gioco del riflesso aranciato sotto la mascella per via dell’abito rosso.  Leonardo, inserisce, poi, un elemento che separa la dama da noi che guardiamo ed è il parapetto, la isola ulteriormente ed anche l’accentuazione del tre quarti della figura sottolinea questa voluta impostazione del ritratto, che ci fa capire il carattere riservato di Lucrezia.

Un ulteriore elemento unisce e caratterizza i due ritratti milanesi ed è lo sfondo nero, che mantiene il senso di spazio in cui le figure sono collocate ma è anonimo, concentrando, così, tutta l’attenzione sulle due donne.

Diverso è con la Ginevra e la Gioconda che sono circondate, immerse in un paesaggio naturalistico, che amplifica la spazialità ed i possibili significati.

Di due altre opere è opportuno tener conto nella ritrattistica leonardesca per aver una visione completa in questo ambito: il disegno-ritratto di Isabella d’Este del 1500 ed una piccola tavoletta (24,7×21) ritratto di fanciulla detta La Scapiliata, concordemente assegnata al 1508 circa.

Il 6 settembre 1499 i Francesi occupano Milano, Ludovico il Moro si rifugia presso l’’imperatore Massimiliano I (parente acquisito a seguito del matrimonio di questi con sua nipote Bianca Maria Sforza) e Leonardo si reca a Venezia, non prima di aver, freddamente, annotato: “..il Duca perso lo Stato e la roba e libertà, e nessuna sua opera si finì per lui”.  Ma fa una sosta a Mantova da Isabella d’Este, che ripetutamente gli aveva richiesto un ritratto, ed esegue un disegno a matita, sanguigna e giallo ocra con tocchi di biacca. L’impostazione è tradizionale col volto di profilo, però verso destra, e il busto quasi frontale, maestoso. Il segno, praticamente continuo, che definisce la fisionomia, è ben marcato, puntuale lo sguardo verso un punto fisso, che accentua, così, l’aspetto aulico del ritratto. Il chiaroscuro del volto si avvicina a quello pittorico evitando l’accentuazione dei tratti di matita, probabile l’uso di uno sfumino o delle dita, alquanto frequente per Leonardo.  Le braccia sono come incrociate, con la mano destra sovrapposta al braccio sinistro, come ritroveremo, rovesciate, nella Gioconda. Purtroppo, all’altezza dell’indice il disegno è poi stato tagliato, esiste una copia di bottega che lo riproduce integralmente. Nella massa compatta dei capelli le ondulazioni sono determinate da un intreccio sottile e compatto dei tratti di matita, mentre il doppio profilo dello scollo  e il disegno a linee verticali dell’abito accentuano la consistenza del busto. Anche in questo caso al disegno non farà seguito il dipinto.

La “Scapiliata” è priva di qualsiasi dato documentario, è probabile possa essere anche uno studio eseguito per conto proprio senza alcuna committenza, si è ipotizzato come probabile studio per una eventuale Madonna, ma la capigliatura sciolta e mossa mi lascia dei dubbi in tal senso. La resa del chiaroscuro è ben determinata e pur nell’uso dello sfumato i volumi sono plasticamente ben torniti.  Lo sguardo abbassato puntualizza una espressività concentrata nel proprio, isolato, intimo, che si evidenzia nel contrasto della compattezza dei volumi con la estrema immediatezza dei colpi di pennello che danno più un‘idea che non la sostanza della capigliatura e facendo percepire la brezza che, appunto, li scompiglia. A tal proposito viene più che opportuna una frase del Trattato di Pittura: “..Fa’ tu adunque alle tue teste li capegli scherzare insieme col finto vento intorno alli giovanili volti, e con diverse revolture (riccioli) graziosamente ornargli”. Poco prima aveva scritto: “..Non vedi tu isplendenti bellezze della gioventù diminuire di loro eccellenzia per gli eccessivi e troppo culti ornamenti? Non hai tu visto le montanare involte negl’inculti e poveri panni acquistare maggior bellezza che quelle che sono ornate?..”. In un altro codice (Ashburnham II, f 20 v): “Pon mente per le strade, sul far della sera, i volti   d’omini e donne quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede in loro”. La sua capacità di osservazione è costantemente attiva e registra anche ogni semplice visione e percezione emotiva. In lui è un continuo, incessante, registrare visioni, sensazioni, immagini sulle quali poi riflette e concretizza nei suoi appunti e disegni, come appunto la Scapiliata.

Eccoci ora alla Gioconda, riconosciuto ormai come il dipinto più famoso al mondo, una icona difronte alla quale si è quasi persa la capacità di osservarla semplicemente per il suo valore artistico, certamente unico, e di dipinto in sé. Ed è ciò che mi propongo. Impossibile farlo sull’originale, per ovvi motivi, e allora ci si accontenta e si rimedia tranquillamente con ottime riproduzioni, oggi di livelli veramente notevoli.

Ritornando all’immagine dei quattro ritratti femminili è subito evidente la differenza con gli altri tre: un senso di spazio e di atmosfera particolare ed il perfetto equilibrio tra figura e paesaggio, l’uno non domina più dell’altro, tutto partecipa equamente ad una unitarietà, che è stata definita, giustamente, universale e cosmica. La Gioconda ha perso nel corso degli anni, nella sua lenta e costante rielaborazione, la funzione di ritratto di una donna specifica con una sua fisionomia per diventare, nel trascorrere del tempo, delle esperienze e delle conoscenze il ritratto di una donna ideale, specchio del pensiero e delle continue riflessioni di Leonardo, di ciò che lui man mano è andato conoscendo, pervenendo ad una sua concezione, ad una idea di umanità che vive nel suo contesto naturale, nelle leggi della natura, in rapporto armonico. Potremmo dire che è più un ritratto dell’intimo di Leonardo, di ciò che lui è diventato nel corso della sua vita.   È quello che si intende per Arte: una immagine che va al di là della realtà raffigurata, trasmettendoci un insieme di emozioni e sensazioni che poi tramutiamo in pensieri concreti, che diventano nostri e che ci aiutano a riflettere e crescere. La Dama è seduta su di una sedia con braccioli circolari, poggianti su piccoli balaustri, in una posa, sì rilassata, ma ben eretta nel busto impostato di tre quarti con la spalla sinistra verso chi osserva. Il braccio sinistro poggia sul bracciolo e la mano destra avvolge, senza stringere, anzi è quasi aperta, il polso sinistro. Il volto è quasi frontale e la prima impressione è che ci stia guardando, invece il suo sguardo è rivolto, lievemente alla nostra destra. Lei è ben conscia di essere guardata, la posa è significativa in tal senso, ma rimane straordinariamente sicura di sé stessa e giustamente si lascia ammirare.

Il volto è un ovale pieno in cui lo sfumato leonardesco raggiunge il suo apice, come in tutte le altre parti del dipinto, rendendo straordinariamente lievi le forme e come amplificandole. L’unica linea percettibile è quella che profila il trasparentissimo velo sui capelli bruni  dalla tonalità rossastra. Fronte, naso, bocca, zigomi, mento si compenetrano senza contorni, anche la linea delle ciglia non è netta, l’iride e la pupilla in entrambi gli occhi presentano un segno più deciso, probabilmente della prima impostazione, ma poi dei tocchi più chiari ammorbidiscono la loro definizione. È questo che probabilmente ha scatenato l’eccessiva fantasia di alcuni che parlano di lettere che Leonardo avrebbe simbolicamente nascoste nelle pupille, a cosa si arriva, pur di… parlare.

La particolare tecnica di sovrapposizione di trasparenti e leggere velature che adotta Leonardo, e praticamente a questo livello solo lui, gli permette di ottenere quel sorriso, più accennato che effettivo, unico nella storia della pittura e dal quale si rimane affascinati e coinvolti.  Non mi dilungo oltre, ci sono una tale quantità di testi su questo aspetto, che bastano e avanzano, è meglio contemplarlo e goderlo.

Anche nella resa dei capelli la morbidezza è perseguita con grande attenzione e solamente dove questi appoggiano sulla luminosità del petto sono dipinti singolarmente.

Altrettanto morbida la resa dell’abito, senza alcun contrasto, con una intonazione generale scura e uniforme, con veli e risvolti e solo nelle maniche un giallo ocra dorato più chiaro accompagna e predispone alla  luminosità delle mani. Al bordo della scollatura è un elegante ricamo che, nel suo intrecciarsi, riprende il gioco lineare continuo, senza interruzione, della corda dorata nella volta della Sala delle Asse del Castello Sforzesco di Milano e di molti disegni dei cosiddetti “nodi vinciani”.  Nel filo è puntualmente reso il gioco luminoso che definisce il suo, pur esile, volume. 

In questi disegni è evidente come per Leonardo il senso della continuità, del collegamento che non si interrompe è una constatazione continua, una evidenza quotidiana. Tutto, ogni singolo componente nella natura è in rapporto con gli altri elementi sottostando alle stesse leggi, un esempio: il moto delle acque e le leggi che le guidano si ritrovano nella circolazione sanguigna dell’uomo e degli animali.

È la sua concezione universale che ritroviamo, non a caso, alle spalle della Gioconda, dove è presente un parapetto sul quale abbiamo gli estremi, molto ridotti, delle basi di due colonne. È molto probabile che la tavoletta di pioppo, che misura 77 cm per 53, sia stata ridotta ai lati per adattarla in un cambio di cornice. Una scelta insolita per Leonardo l’uso di un legno come il pioppo, in particolare per un ritratto, solitamente adotta e nei suoi testi lo suggerisce, l’uso del noce, del pero, del sorbo o dell’arcipresso.

La nostra dama si trova, dunque, nella loggia di un palazzo, quindi in un contesto familiare e tranquillo e da qui si affaccia su una grande vallata con panorama all’infinito.

Ciò che abbiamo appena descritto, lo possiamo riscontrare, puntualmente, anche in un disegno a penna del 1505 circa del giovane Raffaello, che era in Firenze in quegli anni ed è un dato altamente significativo che dimostra come la Gioconda fosse già conosciuta, in specie presso gli artisti attivi in Firenze, pur se ancora in uno stato iniziale.

Raffaello, ritratto di dama, Louvre

Ciò avvalora, se ce ne fosse bisogno, la descrizione del Vasari che nelle Vite del 1550 scrive: “Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua Moglie; e quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appreso il re Francesco di Francia in Fontanableo”.

Volutamente non mi addentro nella marea di identificazioni della Dama ritratta da Leonardo, argomento anche questo cha ha creato (non riempito) biblioteche intere.  Giustificate da documentazioni, più o meno certe, o interpretate liberamente, sempre frutto di ipotesi anche da parte dei maggiori esperti dell’opera di Leonardo, che nel corso degli anni hanno mutato i nominativi poi riprendendoli, a volte.  Giusto per averne un’idea cito solamente i nomi maggiormente discussi: Pacifica Brandano, Isabella d’Aragona, Caterina Sforza, Isabella Gualanda, Filiberta di Savoia, Costanza d’Avalos, Isabella d’Este.  Ma si è giunti addirittura a supporre l’autoritratto dello stesso Leonardo, in riferimento proporzionale al disegno della Biblioteca Reale di Torino.

Personalmente, sono convinto che la Gioconda sia il ritratto di Monna Lisa Gherardini che nel 1495 sposa il mercante e notabile fiorentino Francesco del Giocondo. Questi nel 1503 commissiona a Leonardo il ritratto della moglie ma, come per buona parte delle opere leonardesche, i tempi di realizzazione sono lunghi, tant’è che quando Leonardo ritorna a Milano nel 1507, porta con sé il dipinto con la probabile intenzione di finirlo, ma è molto più probabile che avesse già in mente delle varianti, dopo ben quattro anni dall’inizio (quelli citati da Vasari, appunto).  Rispetto all’operatività della sua stessa mano i suoi pensieri sono più rapidi e variano, mutano nel continuo accumulo di conoscenze, esperienze e riflessioni.

La Gioconda è il dipinto che accompagna Leonardo nel corso del tempo, sia nel suo continuo cambiare luogo di residenza, sia per l’aggiornamento quotidiano del suo pensiero che man mano conquista quella concezione totale universale della e sulla natura, di cui l’uomo, la donna e quindi la Gioconda sono una componente. Leonardo è sì uomo del Rinascimento, ma rispetto ai suoi contemporanei non pone l’uomo al centro del mondo, questi ne è uno dei tanti componenti, non sta al vertice.

Ecco, dunque, quello straordinario e particolare paesaggio che fa da sfondo alla Gioconda, o meglio la avvolge e la fa sua partecipe e costituente. È fuor di dubbio che questo paesaggio è inventato, composto di vari elementi reali, quali la strada a forma di S sulla sinistra o il ponte a destra, nonché le montagne rocciose delle valli toscane o delle Alpi. Ma la sua concezione va ben al di là di un normale panorama, non descrive o copia un paesaggio, ma lo concretizza estraendolo dai suoi pensieri. C’è una concezione direi geologica che supera il tempo contingente e va ben oltre, segna il tempo che trascorre e passa, che muta i singoli aspetti quotidiani della natura e si fa storia.

Qui la luce è ben diversa, non è una luce del Mediterraneo o quella ieratica luminosità di Piero della Francesca che ferma il tempo, rimanendo immutabile, qui tutto trascorre, muta, varia e lascia un segno, senti l’aria che circola, anche se questa aria e questo sorriso imperscrutabile ci giungono imperturbabili da cinquecento anni…fortunatamente.    

Che, poi, a ben guardare è il paesaggio della Vergine delle rocce (1484 circa) o ancora prima, dell’Annunciazione (1478) ora agli Uffizi, pur tenendo conto delle variazioni stilistiche.

Dunque, un paesaggio che nella pittura leonardesca è già in atto sin dalle prime opere, e meglio ancora, dal primo brano di pittura che ci è pervenuto del giovane Leonardo: il paesaggio di fondo nella parte sinistra del Battesimo di Cristo di Andrea del Verrocchio, un atto di fiducia del maestro nelle capacità del suo giovane allievo, pienamente dimostrate nell’angelo inginocchiato di sinistra.  Ma con straordinario e maggiore senso dello spazio lo ritroviamo nell’ultimo paesaggio che Leonardo dipinge alle spalle della S. Anna con la Vergine e il Bambino con l’agnello (al Louvre e recentemente restaurato, col seguito delle solite polemiche), ampiezza dovuta anche alla diversa posizione di visione: all’altezza dell’orizzonte nel battesimo (è identica a quella della Gioconda), a volo d’uccello cioè dall’alto in questo che è forse l’ultimo suo dipinto, dovremmo essere intorno al 1517-8, anche se l’ideazione della composizione risale al 1501 circa. A dimostrarlo un disegno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, con uno studio a penna per il I° cartone della S. Anna a cui seguirà il 2° cartone, a carboncino e biacca, con S. Anna con la Vergine, il Bambino e S. Giovannino del 1506-8, attualmente alla National Gallery di Londra.

Abbiamo così ineluttabile conferma che questa raffigurazione paesaggistica di grande respiro, in cui le rocce, corrose e consunte dalle acque, sono piene protagoniste e rimarcano una concezione del tempo quasi infinito, ben al di là della misura umana,  sia una costante nella produzione pittorica di Leonardo, con variazioni stilistiche ovviamente, ma concettualmente identica. Altrettanto significativo è constatare come lo sviluppo dei suoi dipinti è prolungato, per anni, nel tempo e non è solo il caso della Gioconda. 

Riprendendo il paesaggio della Gioconda, non condivido assolutamente l’inutile esercizio di tentare di scoprire le varie località o luoghi precisi che Leonardo avrebbe raffigurato, come lo stesso ponte, unico manufatto umano presente, oltre alla strada, simile ai ponti dell’epoca riscontrabili nella val di Chiana, a Buriano ad esempio, o nella provincia di Arezzo. Addirittura, ben 27 punti sono stati individuati con relativo nominativo!

Il riproporre con identiche modalità uno stesso soggetto, figura o paesaggio che sia, lo riscontriamo anche in buona parte delle fisionomie da lui dipinte in personaggi non reali quali angeli, Madonne, o Bambini tant’è che è, storicamente, immediato il riferimento ai cosiddetti “Leonardeschi” che ne riprendono le caratteristiche anatomiche. Ogni artista mantiene costante la maniera, le caratteristiche e l’impostazione nel raffigurare determinati soggetti nel corso del tempo, pur sempre con le varianti stilistiche. 

Dopo l’excursus delle fisionomie leonardesche il confronto con la Gioconda non può che confermare l’appartenenza di quest’ultima allo stesso modo di interpretare la fisionomia femminile da parte di Leonardo, con la sottolineatura però, di una lieve accentuazione della rotondità, dovuta alla volontà del maestro di smussare ogni riferimento ad una fisionomia specifica, in tal senso potrebbe rientrare il particolare della mancanza di sopracciglia, che caratterizza il volto, contribuendo così a fa scorrere maggiormente la luce e quindi sottolineare meno i particolari.  Del particolare delle ciglia fa cenno il Vasari affermando che “Nella qual testa (il ritratto di Monna Lisa) chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contraffatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipingere. Avvenga che gli occhi avevano quei lustri e quegli acquitrini che di continuo si veggono nel vivo, et intorno ad essi erano que’ rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare. Le ciglia per avervi fatto il modo di nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali…” Di preciso non sappiamo cosa abbia visto il Vasari, ma puntualizza la determinazione di Leonardo nel concentrarsi sulle “minuzie”, che poi, appunto, vengono meno nella Gioconda, è possibile pensare una sorta di cancellazione di questi elementi onde ottenere una fisionomia non precisa ma generalizzata e concentrata sul sorriso e sullo sguardo ma, soprattutto, che stabilisse un rapporto paritario con le altre parti del dipinto, in specie col paesaggio, come abbiamo visto.

Il dipinto è in sintesi, il percorso di Leonardo: l’analisi, la conoscenza dei componenti di un insieme, l’approfondimento delle caratteristiche per capire come poi questi elementi operano e agiscono nel far parte di un corpo unico.  Dal singolo fenomeno giungere alla totalità della realtà è la sua finalità, il suo scopo, la sua poetica.  Cos’è la Gioconda se non il rapporto tra il particolare, la donna, e l’universale, il paesaggio, uniti poi da una consonanza totale.      

Leonardo supera l’assunto neoplatonico, andando oltre il pensiero “antico” rinnovato dalla cultura, in particolare fiorentina, dell’epoca che tramite l’analisi avvicina l’Arte alla Scienza.  Con Galileo avremo poi dei principi generali dedotti dai fenomeni particolari.

Carlo Pedretti scriveva: “La Gioconda è un quadro vittima di troppa erudizione, troppa filologia, troppa filosofia, troppa psicologia, troppa insofferenza e, tutto sommato, troppa incomprensione”. 

Ed allora ecco che il dipinto più famoso al mondo, non è per niente misterioso, non nasconde nulla, è il normale farsi e disfarsi della natura, è nella sua armonia la semplice espressione di una Bellezza, espressa in modo nuovo, che tralascia i canoni proporzionali e tramite la luce che avvolge il tutto si rinnova in maggior libertà.

Quali sentimenti sono espressi attraverso quel sorriso: nessuno in particolare se non quello della coscienza di se stessa in giusta armonia ed equilibrio col mondo naturale (che tutti dovremmo ricercare).

Questa nostra nuova amica, la Gioconda, nella sua apparente serena solitudine, ci dice che, se mettiamo a tacere il frastuono del nostro mondo, noi non siamo mai soli se apriamo cuore e mente e ascoltiamo le parole che ci vengono da chi ci ha preceduto, permettendo a loro di rivivere costantemente e a noi di sentirci parte della storia che continua.

Febbraio 2020                                                                                             

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