QUALE FRANCESCO ?

QUALE FRANCESCO ?

Dopo il doppio appuntamento con Giotto, conferenza e mostra, nel mese di novembre 2015 è stato pubblicato un importantissimo volume di Chiara Frugoni, tra i maggiori studiosi di S. Francesco e la sua più esperta iconologa, nel quale sono analizzati tutti i cicli pittorici della Basilica Superiore di Assisi e ne viene proposta una lettura unitaria e quindi un programma che ne definisce esigenze e  significati.  Da qui ho sentito la necessità di proporre una conferenza (22 dicembre) che ampliasse la conoscenza di quanto appena analizzato della pittura di Giotto nel fondamentale cantiere di Assisi, manifesto della pittura italiana d’avanguardia a fine Duecento.

Con papa Nicola III (1277-80) si inizia ad affrescare il transetto con alcuni maestri d’oltralpe, ma soprattutto con Cimabue, con riferimenti all’Apocalisse ed episodi finali della vita degli apostoli Pietro e Paolo.

Giunti al tempo di Nicola IV (1288-1292), il primo papa francescano, era assolutamente necessario che la chiesa madre dell’ordine celebrasse con un ciclo di affreschi il suo fondatore che riposava fra quelle mura fin dal 1230. Come mai le pareti erano rimaste bianche per tanto tempo? Le motivazioni e le difficoltà erano molte. Bisognava lodare il santo ma nello stesso tempo bisognava raccordare i suoi ideali (estrema adesione evangelica, assoluta povertà, nessun bisogno di conventi e di libri, lavoro manuale) agli stridenti cambiamenti che erano avvenuti nel frattempo nell’ordine: non più frati laici ma sacerdoti, che abitavano bei conventi, insegnavano all’Università a Parigi, studiavano su lussuosi codici, affermavano che dovevano essere mantenuti dai fedeli. Francesco invece voleva una vita poverissima, temeva la scienza, che rende superbi e raffredda la carità. La sua fraternità era aperta anche e soprattutto ai laici, anche a chi non sapeva leggere.

Come fare allora? Gli affreschi si basano in parte sulla Legenda maior di Bonaventura, approvata nel Capitolo Generale di Pisa del 1263 e in parte su altre fonti assolutamente plausibili, che permettono di sanare il contrasto fra la vita e gli ideali di Francesco e la vita e gli ideali dei suoi compagni al tempo di Nicola IV. Francesco diventa dunque il prototipo, l’esempio, di un ordine perfetto che si concretizzerà in futuro, in un quando stabilito da Dio, ordine che però non è ancora quello del tempo di Bonaventura.

Francesco fu il primo santo ad avere le stimmate, miracolo del tutto straordinario e soprattutto inimitabile. Tuttavia non spese mai una parola su queste ferite, che invece frate Elia, potente Vicario dell’Oriente, aveva constatato sul suo cadavere. Si trattò di un ritrovamento vero o di un’audace invenzione? Certo Gregorio IX non vi credette, e nella bolla di canonizzazione (1228) non ne fece parola, anche se più tardi mutò opinione; una versione ancora differente fu quella di frate Leone, l’amico più caro del santo. Incertezze e discordanze che si rispecchiano nelle tre biografie ufficiali, commissionate a Tommaso da Celano (1228-9; 1246-7; 1254) sul quale influiscono le tensioni e i mutamenti dell’Ordine, diviso tra la fedeltà al Francesco delle origini e l’adattamento a una regola meno rigida che il travolgente successo del fondatore imponeva. A meno di quarant’anni dalla sua morte in Europa erano presenti oltre 1500 conventi francescani.

Originariamente simbolo di un modo di intendere la religione diverso e innovatore rispetto alle tradizioni ecclesiastiche, la figura di Francesco è stata in seguito oggetto di continue e sistematiche revisioni volte a censurarne gli aspetti più rivoluzionari. Il suo percorso biografico appariva infatti come simbolo di molte di quelle istanze centrifughe, quanto non decisamente sospinte su posizioni eretiche, contrastate dalla Chiesa, incapace di riassorbirle. D’altra parte, il credito e la popolarità raggiunte dal santo, tenaci anche dopo la sua morte, rendevano difficile e poco opportuno ogni tentativo di gettare discredito sulla sua figura. Di qui la necessità di organizzare una campagna capillare di informazione, affidata a biografie «controllate» appositamente commissionate e distribuite nei conventi con stupefacente efficacia e sistematicità. Infatti, la biografia ufficiale di san Bonaventura, per fare chiarezza e rispettare le esigenze del momento, impose un nuovo Francesco, facendo di lui la figura dolce e un po’ stucchevole che oggi siamo abituati a conoscere.  Nel Capitolo di Parigi del 1266 fu deciso di distruggere tutte le biografie precedenti, anche quelle non ufficiali, in quello che probabilmente si può ritenere il “rogo” più grande di libri nella storia della Chiesa e non solo. Solo a fine Ottocento furono recuperati, in parte e fortunosamente, a volte in un unico esemplare, alcuni dei testi precedenti alla Legenda Maior. Così, per secoli, Francesco fu il Francesco di Bonaventura.

Sfuggono al controllo le immagini, che pure avrebbero dovuto subire la stessa censura. Attraverso di esse è quindi possibile recuperare una diversa interpretazione dell’episodio delle stimmate. Un episodio – con la rivoluzionaria versione di Giotto – che è l’avvenimento più famoso a conclusione della vita di Francesco. Non meno controversa è l’interpretazione della predica agli uccelli, di cui la Frugoni, ci offre qui una nuova e suggestiva lettura che coinvolge momenti diversi e successivi.
Incrociando quindi fonti scritte e iconografiche l’autrice riesce, con grande agio narrativo, a fornire non solo un’inedita lettura della vita del santo, ma anche a recuperare un singolarissimo momento di storia religiosa, culturale e artistica.  Si giustifica così anche la presenza di due chiese sovrapposte: quella Inferiore ad uso del popolo, quella Superiore dall’Iconografia più complessa ed articolata per i monaci. Una iconografia che lega in una concezione unitaria i vari episodi narrati negli affreschi in cui il Francesco “tutto serafico in ardore” come lo definisce Dante nel Paradiso, si identifica tramite il pensiero di Gioacchino da Fiore ed il filtro di S. Bonaventura nell’apocalittico Angelo del Sesto Sigillo.

Parete della quarta campata con la complessa articolazione narrativa a più livelli

Una visione complessa che trasforma, nel futuro,  l’Ordine francescano in un ordine contemplativo, quando la stessa Chiesa raggiungerà il medesimo traguardo.  Un programma che richiede capacità particolari di invenzione e soprattutto gli strumenti culturali per la sua comprensione.  Il tentativo di conciliare il Francesco autentico, semplice e spontaneo delle origini con le esigenze di un ordine impossibilitato a mettere in pratica i suoi forti insegnamenti.

Lui è dipinto con barba e piedi nudi, i confratelli sbarbati e con i sandali.

Corrado Mauri

 

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GIOTTO A MILANO

Polittico di Badia

Il grande pubblico conosce Giotto soprattutto per gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e per quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, ma in realtà il Maestro lavorò in tutta Italia, anche là dove i non esperti non si aspetterebbero, ad esempio a Milano, proprio in quel Palazzo Reale che nel Trecento era la residenza di Azzone Visconti. Inoltre fu quattro anni a Napoli, alla corte di Roberto d’Angiò, a Rimini, a Bologna, a Roma, oltre che, naturalmente a Firenze, sua città d’origine. Per questo motivo, ma soprattutto per sottolineare la grandezza di un artista innovatore che avrebbe influenzato con la sua opera la pittura di tutta la penisola, i curatori della mostra hanno intitolato la stessa “Giotto, l’Italia”. Si tratta di una scelta selezionatissima di capolavori, praticamente tutti polittici, divisi in nuclei cronologici che seguono lo svolgersi della vita dell’ Autore dalla giovinezza alla morte.

Tra le opere più interessanti il polittico Stefaneschi, forse il più insigne, ma anche quello di Badia, di Santa Reparata, di Bologna e il Baroncelli.

Giotto di Bondone e aiuti (Colle di Vespignano 1267 ca. – Firenze 1337), Trittico Stefaneschi, lato raffigurante la Crocefissione di San Pietro, Cristo in Trono e la Decapitazione di San Paolo e nella predella Madonna in trono con angeli e discepoli, tempera e oro su tavola con cornici dorate, 1320 ca., Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana, inv.40120

In essi, come in tutta l’arte di Giotto, si riscontra una rappresentazione realistica, grazie alla quale i personaggi divini vengono presentati nella loro umanità ed i paesaggi cominciano ad acquisire profondità in una prospettiva intuitiva, giacché la teoria prospettica vera e propria sarà teorizzata solo nel XV secolo. Se infatti osserviamo gli atteggiamenti dei personaggi, ad esempio la Madonna e Gesù Bambino, notiamo subito che non si tratta di divinità distanti e ieratiche, ma di esseri colti nella realtà di mamma e bambino che intrattengono tra di loro un rapporto affettuoso e confidenziale, come è normale tra madre e figlio.

Nel polittico di Badia Gesù si attacca allo scollo dell’abito della Madonna in un tipico gesto infantile. Ma la stessa osservazione si può fare per i crocefissi, non presenti in mostra, che ci mostrano non un Cristo trionfante, che per la sua divina natura è come non risentisse del dolore sofferto a causa delle torture, ma un corpo morto appeso ad una croce che china la testa in avanti a causa del peso della stessa.

La visita alla mostra, come è frequente consuetudine del professor Corrado Mauri, che cura queste uscite per gli “Incontri con l’Arte” della “Domus Picturae” di Cesano Maderno, è stata preceduta da una conferenza tenuta venerdì 30 ottobre nella Sala Aurora di Palazzo Arese Borromeo per portare a conoscenza dei partecipanti, ma anche del pubblico in generale, che è intervenuto numeroso grazie alla fama dell’Autore, il resto dell’opera di Giotto che per ovvi motivi, trattandosi in buona parte di affreschi, non poteva essere visibile in Mostra.

Un’occasione simile, il rivedere insieme questi polittici,  non si ripeterà facilmente ed è stato un vero privilegio potervi accedere preparati dalla conferenza introduttiva e perciò con la possibilità di verificare dal vivo quanto appreso in essa.

Marina Napoletano

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Unitarietà di Palazzo

Paragrafo

L’UNICITÀ DI PALAZZO ARESE BORROMEO DI CESANO MADERNO

Corrado Mauri

 

Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno (MB) è, senza ombra di dubbio, uno dei Palazzi di epoca barocca più rilevanti d’Italia per i suoi  valori storico-artistici e culturali.

Questo per una serie di particolari caratteristiche ed unicità che lo distinguono.  Il Palazzo ci è pervenuto conservando in gran parte i suoi aspetti seicenteschi, senza subire nei secoli successivi trasformazioni tali che lo potessero snaturare nella valutazione generale.  Da qui la straordinaria unitarietà dei valori architettonici, scultorei e pittorici. Che sono tali per un motivo fondamentale: la ferrea volontà del conte Bartolomeo III Arese di costruire il suo Palazzo con precisi e puntuali significati culturali che rispecchiassero la sua concezione ed esperienza di vita.  Anzi, sono convinto che il bisogno, direi l’urgenza, di Bartolomeo III era proprio quella di esprimere, raccontare e quindi lasciare ai successori il suo “pensiero concreto” come potremmo dire oggi. Non, quindi, in un libro che poi finisce negli scaffali di una libreria, ma in una realizzazione che viene vissuta e partecipata quotidianamente e nella quale, vivendola, assorbi e conosci il pensiero di un uomo.  È proprio questo il valore primario del Palazzo cesanese: ogni suo aspetto è significante, ti parla, e non solo il linguaggio della bellezza estetica, ma quello vero del riscontro dei valori storici, artistici, filosofici, religiosi, naturali etc. che si fanno realtà per l’esperienza diretta della vita, siamo cioè in colloquio costante con i risultati e le riflessioni dell’uomo Bartolomeo. In ogni singola Sala o Stanza è espresso negli affreschi il suo pensiero, è solamente con l’intero percorso di visita che ci si può rendere conto, senza perdere alcun ambiente, della straordinarietà dei messaggi trasmessi in questo suo Palazzo, che ora è nostro ed abbiamo l’obbligo morale di farlo conoscere. Il Palazzo di un grande uomo, che pone come centro del suo interesse, come riferimento e guida del suo agire la Conoscenza e la Cultura.  Non che le ricchezze, il potere, non fossero nelle sue corde, anzi, ma vennero gestiti come necessari e opportuni strumenti per perseguire le proprie idee e convinzioni senza timori.

Qui di seguito, brevemente, il suo Cursus Honorum[1]:

Bartolomeo Arese, nato a Milano nel 1610, figlio del Presidente del Senato Giulio dei conti di Castellambro, studiò nel Collegio dei Gesuiti di Brera e successivamente fu avviato alla carriera giuridica. Dopo la laurea in legge conseguita presso l’Università  di Pavia, dal 1629 entrò nel prestigioso Consiglio dei Giureconsulti che raccoglieva i più illustri uomini di legge dello stato. Divenuto dunque collegiato nel 1631 salì tutti i gradini delle professioni giuridiche nello Stato di Milano: ebbe il grado di capitano di giustizia a partire dal 1636, fu quindi questore togato del Magistrato Ordinario nel 1638. Tre anni più tardi divenne senatore, entrando così a far parte del più alto tribunale dello Stato di Milano. Sempre nel 1641 divenne presidente del Magistrato Ordinario e in questo incarico, che gli fruttò anche l’ingresso nel Consiglio Segreto, e che rivestì sino al 1660, divenne l’arbitro della vita politica dello Stato.

Bartolomeo III Arese ritratto da Carlo Francesco Nuvolone

Sposatosi nel 1634 con Lucrezia Omodei,  appartenente ad una famiglia facoltosa di hombres de negocios, ma con buone entrature anche nel Collegio Cardinalizio (tramite il fratello di lei Luigi Alessandro, Cardinale), allargò la propria influenza grazie alla solidissima preparazione, alla grande capacità di mediazione, alle enormi ricchezze che riuscì ad accumulare e che si tradussero anche in mecenatismo. La clientela vastissima che l’Arese seppe organizzare, unita alle molteplici doti, gli consentì di divenire il punto di riferimento principale del sovrano, Filippo IV, nella Milano di metà Seicento. Per tutte queste ragioni venne presto chiamato “il dio di Milano”, tanto che, divenuto reggente nel Consiglio d’Italia (l’organo che governava le provincie italiane della Monarchia) poté permettersi (fatto assolutamente insolito) di reggere l’incarico ad honorem, cioè senza prendere formalmente possesso della carica a Madrid, ma esercendola a Milano. Tra il 1660 e il 1674 (anno della sua morte) fu presidente del Senato. Ebbe tre figli, un maschio, Giulio, morto prima del padre e due femmine, Giulia (sposatasi con Renato II Borromeo) e Margherita (unitasi con Fabio Visconti Borromeo). Alla morte di Bartolomeo nel 1674 l’enorme patrimonio accumulato fu diviso tra le due figlie e il Palazzo di Cesano pervenne ai Borromeo. Il nipote Carlo, figlio primogenito di Giulia e Renato Borromeo, in segno di riconoscenza nei confronti del nonno aggiunse a partire dal 1674 al cognome del padre anche quello degli Arese”.

[1] Il testo è tratto da C. Cremonini Le vie della distinzione. Società, potere e cultura a Milano tra XV e XVIII secolo. Milano, EDUCatt 2012.

Nell’arco di meno di un ventennio, dal 1654 circa al 1670, possiamo dire che l’opera era in buona parte realizzata con completamenti successivi sino al 1674, anno della morte di Bartolomeo III e oltre, da parte della figlia Giulia, fedele alle istanze paterne e del nipote Carlo IV, che ne assume l’eredità ideologica.

Determinante è la decisione dell’Arese di creare l’Asse Barocco, un viale che dai boschi verso est, (l’attuale Parco delle Groane, dove ritroviamo due pilastri identici a quelli che aprono piazza Esedra a segnare, appunto, l’inizio del viale stesso, perfettamente rettilineo, che raggiungeva il Palazzo e lo attraversava nel cortile, nella Sala Aurora e lungo tutto il Giardino), giungeva poi al cosiddetto Serraglio, un recinto chiuso in cui si allevavano animali selvatici, utili quando si organizzavano battute di caccia per gli ospiti del conte[1].  Nell’impostare questa soluzione urbanistica (di oltre due chilometri e mezzo) Bartolomeo decide di ricostruire l’antica chiesa romanica, di S. Stefano Protomartire, ormai fatiscente, girandone però l’asse di 90 gradi, di modo che la facciata, prima rivolta al fiume Seveso, prospettasse direttamente sul nuovo viale, rimarcandone un rapporto fondamentale con lo stesso epicentro dell’Asse: la piazza Esedra e il suo Palazzo.  Da qui la precisa volontà dell’Arese di creare una situazione logistica in cui la sua residenza diviene il fulcro del borgo di Cesano, ma anche, stabilire con questo evidenti e puntuali rapporti e legami indissolubili.

Il Palazzo non si isola in se stesso, ma anzi è termine e motivo di incontro. Prospiciente il Palazzo è la piazza Esedra, dalla forma semicircolare, che è detta anche del Teatro per il fatto che in essa si svolgevano spettacoli teatrali, aperti a tutto il borgo e non solo per il padrone di casa ed i suoi ospiti.  Il prof. Andrea Spiriti affermò che la piazza veniva anche usata, settimanalmente, come luogo di mercato del borgo.  Il rapporto formale con gli spazi urbani si concretizzava, dunque, anche in quelli sociali.

La piazza apre e sottolinea la facciata del Palazzo e contribuisce, nel suo modo di essere, al senso di semplicità e mancanza di voluta monumentalità, per le sue sembianze più da chiusura di giardino che da piazza cittadina. Dopo la riqualificazione storica della piazza, nei primi anni novanta del secolo scorso, anche oggi, l’Amministrazione Comunale utilizza tale spazio per eventi culturali o di intrattenimento.

A dimostrare le scelte personali di Bartolomeo III è l’aspetto esteriore del Palazzo, di estrema semplicità. Intonaci bianchi, nessun elemento decorativo sia in rilievo che dipinto, intorno alle finestre nessuno stipite o rilievo, solamente del bugnato rustico intorno al portale e lo splendido balcone in ferro battuto del salone del piano nobile, per la cui finestra era previsto qualche elemento, simile al portale, ma poi non realizzato, ma assolutamente ininfluente sull’aspetto dell’insieme.

[1] Monografia dei Quaderni di Palazzo Arese Borromeo n.8 – Daniele Santambrogio, Il “Serraglio degli animali” e il “Ronco di sotto”: le due estremità dell’asse barocco di Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno – Associazione “Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo” 2016

Tale austerità che, come vedremo, continua anche nel cortile interno, caratterizza tutta l’architettura esterna, dimostrando una scelta precisa e che si impone, una scelta che va contro lo stile architettonico del tempo, il Barocco, che per sua natura è ridondante, mosso ed articolato nelle sue componenti. Nulla, se non le dimensioni, arrivando a Palazzo dichiara una voluta importanza o ricerca di magnificenza, ma questa si manifesta poi, prepotentemente, nel ricchissimo apparato degli affreschi del suo interno.  Il gusto dei contrasti è giocato sapientemente.

Quanto appena constatato è un altro degli elementi di straordinaria unicità del nostro Palazzo, il non rispettare le caratteristiche dell’epoca barocca se non ove queste coincidono con le idee e la volontà di Bartolomeo III. La mancanza di qualsiasi accenno ad aspetti di estrosità, fantasia e tantomeno bizzarria. Diversamente dal persistente chiedersi e interrogarsi sul senso della vita e delle sue contraddittorietà, qui abbiamo indicazioni puntuali e precise, il riferimento al concetto di classico è totale sia quale base ideologica, sia nella costante ricerca estetica di rapporti e misure armonici.  Emanuele Tesauro nel suo testo Cannocchiale aristotelico del 1654 definisce le opere d’Arte come “artificiosi inganni della nostra immaginazione” destinati a “somministrarci infiniti equivoci mirabili, e enigmatiche proposizioni”.  Il rigoroso teorico dell’Arte e gesuita cardinal Sforza Pallavicino ammette senza alcun timore o reticenza che un artista “tanto è più lodevole, quanto più inganna”. Ecco perché, oggi, lo storico dell’Arte Tomaso Montanari conclude ”Quando la politica coincide con la retorica, e la vita sociale con la dissimulazione, l’Arte non può che essere inganno: per questo, oggi come nel Seicento, l’enigma è l’unico modo di parlar chiaro”.

Ma a Cesano, assolutamente nessun enigma o inganno, siamo agli antipodi, ognuno di noi ha a disposizione certezze e verità che gli permettono di agire al meglio, ma nella totale responsabilità e autonomia delle proprie scelte.  Ovviamente è costante l’invito, ripreso da Eraclito, a studiare con attenzione, con pervicacia la vera natura delle cose e le loro ragioni nascoste, l’uomo deve vincere la propria pigrizia che lo porta ad evitare la fatica di comprendere e approfondire ciò che immediatamente non si rivela, ed in particolare proprio se stessi. Bartolomeo ci spiega: qui, e lo  applica per primo su se stesso, questo difficile e impervio percorso di vita.

Le sale del piano terra presentano gli affreschi in medaglioni con cornici in stucco colorato, al centro delle volte; i soggetti sono tratti dalla mitologia classica, ma in essi bisogna leggere i riferimenti alla contemporaneità e alle vicende dell’Arese.  Nelle vele e nelle lunette di queste sale si è aggiunta una decorazione rococò, ad affresco, negli anni quaranta del settecento.  Le pareti sono semplicemente intonacate in quanto ospitavano l’importante quadreria, ma con la specificità che ogni sala aveva una tematica ben precisa: i ritratti Arese, le Principesse, i Cardinali, i ritratti degli Asburgo d’Austria e così via.   Estremamente significativa è la Galleria al Giardino  in cui affreschi e dipinti costituiscono un insieme altamente simbolico: gli affreschi della volta raffigurano tre modi diversi di vivere l’Amore; nelle 14 lunette le raffigurazioni di virtù minori, oltre alla Giustizia, di caratteri e atteggiamenti positivi che possono aiutare l’uomo nel compiere le proprie scelte di vita, mentre nei dipinti sulle pareti si riscontravano  gli esiti positivi o negativi delle scelte fatte dai vari personaggi della storia antica o del vecchio testamento, un’insieme dunque  che con l’amore, elemento fondante della vita, le virtù, utile aiuto per scegliere il meglio e i risultati delle scelte compiute, ribadisce quanto ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni, ciò che abbiamo appena affermato.   Di notevole originalità l’Appartamento alla mosaica (oggi detto Ninfeo) in cui pareti, soffitti e pavimento sono rivestiti da un mosaico di piccoli sassolini di fiume bianchi e neri con eleganti disegni barocchi e con affreschi (sviluppanti il tema della Moderazione e quindi suggerimento comportamentale),  la cui funzione era precipuamente quella di piccolo cenacolo culturale.  Un’altra sala del pianterreno  era dedicata ai ritratti della famiglia Arese, tra cui ovviamente quello di Bartolomeo III,  recentemente riallestita (con progetto dell’Associazione Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo) tramite le riproduzioni ad alta fedeltà dei dipinti originali, attualmente all’Isola Madre del Lago Maggiore, proprietà di Casa Borromeo Arese.

Al piano nobile di Palazzo, gli affreschi rivestono completamente le pareti, mentre i soffitti sono tutti in legno a passasotto e decorati.   Notevole lo Scalone di ferro o delle Armi (Stemmi) in quanto sulle pareti sono raffigurati ben 47 stemmi, straordinario e raro esempio di araldica seicentesca in Lombardia.

 

La serie di Sale che si susseguono, con varianti di percorso, sono tra i capolavori del secondo seicento lombardo, opera dei maggiori pittori dell’epoca: Giovanni Doneda il Montalto col fratello Giuseppe, Giovanni Ghisolfi,  Giuseppe Nuvolone, Ercole Procaccini il Giovane, Antonio Busca e, recente attribuzione, Giovan Battista Costa, nonché il quadraturista Francesco Villa, mia recente attribuzione.

Ogni Sala (24 quelle con affreschi) svolge una tema particolare, ma la strutturazione generale vale per tutte, infatti i singoli soggetti od episodi sono raffigurati all’interno di Quadrature architettoniche, ulteriore elemento che contribuisce all’unitarietà del Palazzo. Tra le Sale più significative quelle delle Rovine, ben tre le Sale dipinte a Boscareccia sulle cui pareti viene raffigurata la natura con ampi paesaggi che assumono valenze diverse per ogni  sala, il Salone dei Fasti Romani (serie di episodi della storia di Roma), del Castello rappresentazione esatta di come era all’epoca il Castello Sforzesco di Milano, dei Porti di Mare, degli Eremiti, delle Colonne (qui erano appesi la serie dei ritratti degli Asburgo di Spagna), la straordinaria Galleria delle Arti Liberali, la Cappella privata dedicata a S. Pietro Martire, la Sala dei Motti e la Loggia, che conclude il percorso, unica in Lombardia al piano nobile e che per le sue armoniose misure e il suo rigore si direbbe più brunelleschiana che barocca.

Da qui un’affascinante panorama sullo straordinario Giardino, di quasi 90.000 mq, dove, oltre alle essenze arboree importanti: carpini, tassi, tigli, querce  e una grandiosa impostazione “all’italiana” nella parte prospicente al Palazzo, sono presenti Statue, richiamanti il mondo classico e rinascimentale di cui sviluppano ulteriori simbologie e tematiche, l’Uccelliera, il Casino Ovale oggi detto Tempietto del Fauno, la Fontana barocca, la Fontana del Mascherone.

Palazzo Arese Borromeo, quindi, non solo interessa e affascina, ma per chi ha sensibilità coinvolge fortemente e dopo la prima visita il tornare più volte permette di cogliere ulteriori particolari e raffinati passaggi e proposte culturali. Come dicevo all’inizio: il primo incontro si trasforma in ascolto, poi in amicizia costante: in me continua da ben oltre vent’anni.

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La canestra di frutta del Caravaggio

LA CANESTRA DI FRUTTA del CARAVAGGIO

Corrado Mauri

 Quando si è trattato di scegliere il logo della Domus Picturæ, visto che l’impegno didattico prevalente della nostra attività è la copia dal vero, il riferimento naturale è stata la natura morta, di conseguenza il pensare all’opera più splendida e significativa nella Storia dell’Arte in tale ambito fu immediato: la Canestra di Frutta del Caravaggio. Ma non era pensabile utilizzarla tale e quale, anche per senso di rispetto e deferenza, era opportuna una efficace sintesi e la suggerì lo stesso dipinto che nella parte estrema a destra presenta due foglie secche, prive di qualsiasi particolare naturalistico e di effetto luministico: due semplici sagome scure. Così si diede risalto alla sagoma generale della canestra, mantenendola nera sul suo naturale fondo chiaro di ocra dorata.

Altrettanto naturalmente mi viene di scegliere tale dipinto quale prima opera da analizzare per la sezione CAPOLAVORI  del nostro sito internet. Continua a leggere

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1000 ARTISTI A PALAZZO

1000 ARTISTI A PALAZZO

VETRINA DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Mostra a Palazzo Arese Borromeo e Antica Chiesa di S. Stefano

7 marzo – 13 aprile 2009

La Mostra espone la Collezione di 1200 opere, eseguite nella misura fissa di 20 x 20 cm da pittori o scultori scelti su passaparola tra gli stessi artisti e donate al Promotore della raccolta, l’Architetto e Pittore Fiorenzo Barindelli di Cesano Maderno. Una raccolta di opere realizzate in svariate tecniche e stili. Tante opportunità d’espressione, per avviare un confronto tra artisti in ampiezze d’orizzonte culturale che si allargano in molte nazioni del pianeta.

L’Assessorato alla Cultura e al Turismo dell’Amministrazione Comunale di Cesano Maderno con la collaborazione di Fiorenzo Barindelli e del World Museum ha coordinato il Comitato Promotore formato dalle più prestigiose Associazioni del territorio, compresa la Domus Picturae, nella persona del prof. Mauri, che ha predisposto un testo per il catalogo della Mostra:

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