La canestra di frutta del Caravaggio

LA CANESTRA DI FRUTTA del CARAVAGGIO

Corrado Mauri

 Quando si è trattato di scegliere il logo della Domus Picturæ, visto che l’impegno didattico prevalente della nostra attività è la copia dal vero, il riferimento naturale è stata la natura morta, di conseguenza il pensare all’opera più splendida e significativa nella Storia dell’Arte in tale ambito fu immediato: la Canestra di Frutta del Caravaggio. Ma non era pensabile utilizzarla tale e quale, anche per senso di rispetto e deferenza, era opportuna una efficace sintesi e la suggerì lo stesso dipinto che nella parte estrema a destra presenta due foglie secche, prive di qualsiasi particolare naturalistico e di effetto luministico: due semplici sagome scure. Così si diede risalto alla sagoma generale della canestra, mantenendola nera sul suo naturale fondo chiaro di ocra dorata.

Altrettanto naturalmente mi viene di scegliere tale dipinto quale prima opera da analizzare per la sezione CAPOLAVORI  del nostro sito internet.

Che la Canestra di frutta sia un’opera straordinaria ed unica, già immediatamente al primo sguardo, è cosa scontata e soprattutto confermata da una infinta produzione critico-letteraria da ormai più di tre secoli. Del resto che ogni opera di questo fondamentale Artista sia un capolavoro riconosciuto  è altrettanta verità. E sono proprio le sue opere che costituiscono i consolidati punti di riferimento del Caravaggio, che non i dati documentali e storici, tutto sommato scarsi rispetto alla sua importanza per l’Arte, in specie poi sull’uomo Caravaggio, che rimane a tutt’oggi più misterioso di quanto si creda.   Ed è questa la sua particolare contraddizione: le sue opere hanno un valore realistico tra i più significativi, quando le osservi (e ne vieni travolto) hai la perfetta coscienza di essere di fronte ad un contesto assolutamente vero e concreto difficile da negare, i personaggi e le azioni, le cose, sono talmente puntualizzati da una luce reale che perdono i riferimenti letterari o religiosi e si costituiscoino presenza vera, di cui noi stessi diveniamo testimoni e partecipi essendo coinvolti da precisi e puntuali dati pittorici.  Il capire l’autentico significato di ciò a cui stiamo partecipando non è affatto scontato, è altra cosa.  Certamente, oggi, siamo ormai ad una capacità e possibilità di comprensione della sua produzione decisamente notevoli, ma non sufficienti a dare confortante certezza, rimane sempre un senso di insondabile, che è però il “necessario” costituente del fascino di questi capolavori. Mentre la sua personalità, non tanto di artista, ma di uomo, è ancora sfuggente. Oggi potremmo dire che presenta una doppia personalità: quella di pittore-artista sicuro non solo delle proprie straordinarie capacità tecniche e del proprio talento ma anche quella di una ricchezza di idee personali decisamente unica, la capacità di rielaborare concetti o testi religiosi con una assoluta autonomia, aderendo però ai principi della Controriforma in modo difficilmente riscontrabile in altri artisti suoi contemporanei. La sua coerenza col dettato evangelico è totale, lo dimostra il fatto che buona parte dei suoi dipinti hanno incontrato numerose difficoltà ad essere non solo capiti ma accettati, addirittura con rifiuti clamorosi, dimostrando quanto nella Chiesa l’applicazione, appunto evangelica, era ben lungi dall’essere praticata. L’altra faccia della sua personalità è quella che una volta deposti pennelli e tavolozza sul tavolo per tempi imprecisati, più lunghi che corti, si dedicava a tutt’altro: il gioco d’azzardo e le scommesse, il girovagare con la spada al fianco (concessogli in quanto famiglio di casa del Cardinale Del Monte) e il fare risse, tanto da essere arrestato e subire un processo. Ci risulta ancora difficile, oggi, comprendere come lui riuscisse a conciliare questi aspetti decisamente opposti tra  loro.

E vediamo, allora, tutto questo nella Canestra.

Il soggetto è perfettamente leggibile: un insieme di vari frutti e relative foglie raccolti in una canestra fatta di vimini intrecciati, posta su un piano di legno perfettamente orizzontale e con una parete di fondo illuminata e priva di ombre.

Lo stagliarsi del soggetto contro la luminosità del fondo lo isola e lo esalta contemporaneamente, accentuando il volume di ogni singolo frutto e foglia, disegnati da una luce precisa che viene quasi dall’alto e da sinistra, come del resto in quasi tutte le opere di Caravaggio.  La precisione della descrizione di ogni frutto potrebbe sembrare quasi fiamminga, ma non ha la sua modalità analitica, ne è ben diversa per resa ed in specie per il fatto che in Caravaggio la singola pennellata è sempre ben percepibile, la pittura è costituente non mimetizzata del fare Arte.  Senz’altro la conoscenza della pittura fiamminga è parte del bagaglio dei pittori lombardi, come il determinante rapporto con il senso di reale quotidianità, altrettanto tipica caratteristica lombarda, sin dal quattrocento.  Questa lezione è sempre presente in lui, attento e distante, tanto da non lasciarsi  coinvolgere dalle caratteristiche della pittura romana. Guarda, conosce, ma rielabora personalmente la grande lezione rinascimentale, non quella del manierismo, un amante della propria libertà non poteva che rimanerne indenne.

Proprio la Canestra è la conferma di alcuni dati significativi: arriva a Roma già notevolmente capace in questo ambito ed il Ragazzo col canestro di frutti, una delle prime opere romane, ne è la chiara dimostrazione, che ritroviamo anche nel Bacchino malato e nel successivo Bacco degli Uffizi.  L’attenzione alla realtà della natura è una novità per la pittura romana, non rientra nei suoi canoni rappresentativi, lo sarà solo successivamente, a seguito, appunto, della lezione caravaggesca.  Questo è uno degli elementi che lo diversifica dai pittori che operano nella grande città, che lo osservano si, con interesse, ma anche diffidenti.  Del resto è lo stesso Caravaggio che dichiara nell’interrogatorio subito nel processo del 1603: “un pittore valenthuomo/ è colui/che sappi dipingere bene ed imitar bene le cose naturali”, ma anche una testimonianza del marchese Vincenzo Giustiniani riporta una frase del Caravaggio: “tanta manifattura gli era a fare un quadro di fiori quanto di figure”, superando così anche la separazione dei generi, legati ai contenuti ed ai soggetti, dibattito molto vivo nel Cinquecento.

Alla luce degli ultimi e recenti studi non è ancora chiara la motivazione della scelta di questo particolare soggetto, la probabilità maggiore, di cui sono convinto, è quella di una commissione da parte del Cardinal Federico Borromeo, unico proprietario del dipinto, che cita in un codicillo del proprio testamento del 15 settembre 1607 (8/9 anni dopo l’esecuzione del dipinto): “Un quadro di lunghezza di un braccio, et di tre quarti incirca di/ altezza, dove in campo bianco è dipinto un Canestro di / frutti parte ne rami con le lor foglie, et parte spiccati da esse / fra quali vi sono due grappoli di uva, uno di bianca, et / l’altro di nera, fichi mele, et altri di mano di Michele / Angnolo da Caravaggio” e che il 28 aprile 1618 dona, con tutta la sua quadreria, all’Ambrosiana ed è, oggi, uno dei fulcri della Pinacoteca milanese del quale è molto gelosa; è rarissimo, infatti,  il prestito per esposizioni.

Il Borromeo è presente a Roma prima del 1595, poi dal 1597 al 1601 e alloggia nei pressi del Palazzo della Madama, proprietà dei Medici di Firenze,  nel quale risiedeva il Cardinal Francesco Maria Bourbon Del Monte, personalità di rilievo nella Corte Pontificia e ambasciatore del Granduca di Toscana Ferdinando De Medici, amico e sodale del Borromeo, ma in particolare uno degli intellettuali d’avanguardia a Roma, grande collezionista, appassionato di musica, alchimia  e protettore di artisti. Non è un caso che il Del Monte dal luglio 1597 ospitava nel proprio palazzo il giovane Caravaggio, di cui aveva acquistato, tramite Costantino Spada, rigattiere di S. Luigi dei Francesi (di fronte al Palazzo), il dipinto i Bari, offrendogli non solo alloggio e mantenimento, ma anche protezione, oltre ovviamente, ad un ambiente culturalmente molto elevato. Tra l’altro Guidobaldo, fratello del cardinale, stava scrivendo proprio in quegli anni un trattato di prospettiva, è indubbio che la straordinaria precisione della prospettiva degli stumenti musicali dipinti nelle due versioni (S. Pietroburgo e New York) del Suonatore di liuto sia dovuto ad una stretta collaborazione tra i due.

A tal proposito è mia ferma convinzione che il nostro pittore era persona con una cultura di un certo spessore, ben più elevata rispetto a buona parte dei suoi colleghi contemporanei.

Nasce in una famiglia strettamente legata ai Marchesi di Caravaggio, Francesco Sforza, la cui moglie è Costanza Colonna,  fu compare al matrimonio dei genitori di Caravaggio, il padre Fermo era sovrintendente del Marchese, il fratello minore Giovan Battista divenne Monsignore. Nella giovinezza a Milano il Caravaggio partecipò del fervido clima religioso imposto da S. Carlo, la cui sorella Anna, guarda caso, sposa Fabrizio Colonna, fratello della Marchesa Costanza, la quale sarà sempre e costantemente, lontana o meno, ombra protettrice sul nostro pittore. Altro significativo legame il Nostro lo avrà con Filippo Colonna, figlio di Costanza, colui (nel suo incarico di Comandante delle Galee dell’Ordine di Malta) che da Napoli porterà il Caravaggio all’Isola di Malta dove, se pur per breve tempo, diverrà Cavaliere di Malta, nonostante su di lui penda la condanna capitale per l’uccisione del Tommasoni.

Quanto accennato era indubbiamente a conoscenza del Cardinal Federico Borromeo, che dunque ben sapeva chi fosse il giovin pittore che abitava presso il Del Monte, ecco quindi, la concreta possibilità di una sua diretta commissione per la Canestra, che, come vedremo, è opera più che degna di tal committente.  Che la Canestra fosse un regalo al Borromeo da parte di Del Monte è stato recentemente smentito.  Nel 1625 il Borromeo pubblica un’opera estremamente interessante ed affascinante “Musæum”, nella quale compiendo il percorso delle Sale della Sua quadreria, ormai aperta a tutti, analizza con giudizi particolari e bonari i dipinti. A proposito della Canestra abbiamo una citazione molto importante: [“Nec abest gloria proximæ huic fiscellæ, ex qua flores micant..”] “Non è privo di pregi un canestro accanto a questo quadro (quadro con un S. Antonio di Gerolamo Muziano, che era appena stato descritto) dal quale ammiccano fiori variegati. Lo dipinse Michelangelo da Caravaggio, che si conquistò a Roma un notevole credito. Personalmente avrei voluto avere un altro canestro simile a questo, ma, poiché nessuno raggiungeva la bellezza di questo e la sua incomparabile eccellenza, è rimasto solitario”.

In queste poche righe abbiamo un insieme di elementi decisamente interessanti: il riconoscimento dell’importante  e rapido successo ottenuto da Caravaggio a Roma, il giudizio decisamente positivo nei confronti della Canestra, tanto da desiderarne un pendant, impossibile però da averne della stessa bellezza perché  il Caravaggio era ormai morto e nessuno era in grado di raggiungere il suo livello qualitativo.  In latino poi nomina la canestra col termine ‘fiscella’ poi usato frequentemente come sinonimo per la Canestra dipinta, ma più ancora colpisce la definizione “flores micant” molti dicono di una svista o errore del cardinal Federico che ha scambiato della frutta per fiori.  Ma invece la conoscenza degli scritti sacri del Borromeo è, ovviamente, molto approfondita e qui fa riferimento ad uno dei testi più lirici della Bibbia, il Cantico dei cantici, dove si parla di “flores vineæ” cioè “uva dal fiore delle vigne”, uva-vino alimento del rito eucaristico; il cardinale ci dichiara come nella Canestra non solo è eccezionale il livello rappresentativo della frutta, ma altrettanto quello simbolico.

A conforto di questa lettura è un testo del 1988 di Mia Cinotti a proposito della Canestra “L’iconologia è anche più che in altri quadri del pittore, inscindibile dallo stile perchè l’intensità di espressione che emana da questo violento e quasi provocatorio assembramento di frutti e foglie va ben al di là del pezzo di bravura. Non per nulla il Borromeo quando dice, in apparenza ambiguamente, che dalla fiscella flores micant è il primo, mi sembra, che sa cogliere il valore estetico sacrale della natura in fiore, in perfetta consequenzialità botanica tra fiore e frutto”.

Il canestro di frutta, in accordo all’esegesi, rappresenta le Sacre Scritture laddove i frutti sono gli insegnamenti dell’Antico e Nuovo Testamento, nutrimento per lo spirito.

Personalmente, di un’altra possibilità sono convinto e cioè che Federico Borromeo pur manifestando, in seguito, contrarietà per il tipo di vita condotta dal Caravaggio il “pittore maledetto”, nel riconoscergli i grandi meriti e valori artistici abbia comunque operato, a distanza ed in incognito, una forma di protezione, come la Marchesa Costanza Colonna.

Vediamo, dunque, in cosa consista l’eccezionalità di questa opera, rendendola un “unicum” nella storia dell’Arte, considerata quasi la capostipite del genere Natura Morta, anche se abbiamo parecchi esempi che la precedono.

Ciò che la differenzia dalla quasi totalità delle nature morte è che qui manca del tutto un ambiente in cui il soggetto è inserito, manca la contestualizzazione con un racconto o una descrizione narrativa o di ambiente. É soggetto che vale esclusivamente per se stesso.

Al di là della canestra in sé e della frutta rappresentata, vi sono due elementi precisi che la caratterizzano: il piano su cui è posta ed il fondo.Il piano di appoggio è una semplice tavola di legno vista frontalmente e perfettamente in orizzontale, non vediamo assolutamente in prospettiva il piano della tavola o tavolo, è una semplice striscia di legno priva di profondità. Esemplifica dunque, una scelta precisa e voluta: essere tolta da un contesto di spazio normale, di realtà di una stanza, come riscontriamo invece in  tutte le altre nature morte.

Ma abbiamo come una contraddizione: la canestra sporge in avanti rispetto alla tavola, tant’é che vediamo perfettamente che questo sporgersi crea un’ombra che di conseguenza determina un senso di spazio. Ed è proprio questo sporgersi, questo venire verso l’osservatore che inconsciamente è ciò che ci coinvolge, che ci fa partecipi di quanto è dipinto e quindi dobbiamo capire.  Questa spazialità viene nuovamente come annullata dal fondo.  É un fondo assolutamente uniforme, chiaro di una luminosa tonalità ocra d’oro, steso con attenzione, ma non piatto, si vedono chiaramente le minime variazioni di tonalità, un poco più calde o meno, che rendono la superficie sensibile alla luce e quindi non uniforme.  Questa stesura è data per ultima, dopo la precisa raffigurazione della frutta e della canestra, lo si vede chiaramente dal senso e direzione delle pennellate che seguono con attenzione il contorno di ogni elemento isolandolo. Qui Caravaggio ci ripropone il tradizionale fondo oro dei Polittici medioevali, che isolava e toglieva dalla realtà le divinità, i santi e le storie sacre a simboleggiare uno spazio infinito, un cielo non terrestre, un possibile paradiso intriso di luce divina.  Non a caso viene scelta questa tonalità calda, giallo pallida come, appunto, l’oro.

Caravaggio è il pittore d’avanguardia che rinnova gli stilemi precedenti.

Ma osservando la frutta, la sua realtà concreta e quotidiana è assoluta. Ogni singolo frutto o foglia sono raffigurati con estrema attenzione, modellati con una resa del volume notevole, con un tocco rapido sicuro, la pennellata non è mimetizzata ma ben visibile ed accompagna e segue il senso dei volumi o, ad esempio, il disegno dei vimini della canestra.

Riporto un testo di Maurizio Calvesi che esemplifica in modo puntuale la percezione del dipinto: “..Ma perchè è così straordinariamente bella, la Canestra? Non certo perché riproduce la frutta con esattezza che potrebbe dirsi fotografica. Qui tuttavia dal realismo, si genera una mirabile struttura formale, verificabile secondo due percorsi complementari che chi guarda può seguire. Per accertare, infatti, la fedeltà al naturale della Canestra, l’occhio dovrà inseguire i minimi particolari in un itinerario labirintico, soffermarsi sul modo in cui sono resi i singoli frutti, le singole foglie. Ma per ben percepire la “plasticità” dell’immagine, l’occhio dovrà abbracciare l’insieme osservare come l’ombra addensata sul fianco destro del canestro faccia risaltare le sue parti in luce, traducendone la naturale rotondità in una rotondità che è quella del “volume”, della forma pura, pervasa dalla segreta vita di una luce cristallina tra cui bisbigliano lievi passaggi di chiaroscuro…”

Il rispetto dei colori naturali dei frutti è preciso, ma di questi sono puntualmente descritti anche tutti i segni di deterioramento, il tempo passa ineluttabilmente e ogni cosa si guasta, nelle foglie in particolare notiamo il progressivo seccarsi, non c’è nessuna foglia fresca ma qualcuna accartocciata e due ormai completamente secche, chiaro riferimento al trascorrere del tempo e della vita, cioè prima o poi si muore. Anche qui il Caravaggio, senza dubbio, si è avvalso di una canestra vera da copiare e ne rende così la realtà, tutta la sua pittura adotta sempre un modello dal vero da studiare in una precisa situazione luministica, è un principio fondamentale che rivoluzionerà buona parte della pittura dopo di lui.

Qualche difficoltà il nostro l’avrà avuta nel reperire i frutti che non sono della stessa stagione. Anche questo sottolinea il valore simbolico della scelta dei singoli frutti, non semplicemente legato, dunque, a ciò che era disponibile.

Quale frutta è rappresentata nella fiscella? una mela, una mela cotogna, una pera, uva bianca e nera ed anche rosso cupo verso il fondo, fichi chiari e scuri, una pesca.

Quali i significati iconologici in particolare nell’ambito del cristianesimo? per la mela il riferimento al peccato originale è più che lampante, legato all’albero della conoscenza, l’albero del bene e del male, legato dunque alla caduta dell’uomo ed alla tentazione ma, se raffigurata in mano a Gesù, assume il valore di redenzione dal peccato.  La mela cotogna, detta anche il pomo d’oro, è simbolo di fertilità ed unione matrimoniale, di conseguenza di amore; in particolare nel Rinascimento accompagna i ritratti degli innamorati, Plinio ne ricorda la proprietà di essere particolarmente efficace contro gli avvelenamenti, da qui successivamente, l’accostamento con Gesù assume il significato di resurrezione.

La pesca, come già sottolineava Plinio nella Naturalis Historia, è costituita da tre parti: il frutto, il nocciolo e l’interno del nocciolo stesso che racchiude il seme, di conseguenza con la cristianità diviene riferimento alla Trinità, ma gli antichi consideravano l’immagine di una pesca con una foglia attaccata al picciolo simboli del cuore e della lingua, da qui Cesare Ripa nell’Iconologia (1583-1625) associa la pesca con foglia all’allegoria della Verità.  I fichi sono legati a protezione e salvezza per gli antichi, Gea si salva dai fulmini di Zeus all’interno di un fico, pianta altrettanto positiva per gli antichi romani, infatti era l’albero sotto il quale si ferma la cesta con Romolo e Remo che, abbandonati sul Tevere, si salvano sotto questo albero. Nei testi sacri la pianta di fico ha doppia valenza, positiva e negativa: è interpretata come albero della conoscenza in quanto Adamo ed Eva dopo aver mangiato il frutto “si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(Genesi 3,7) , ma si narra anche che Giuda, pentitosi, si impiccò ad un albero di fico. Nella Bibbia si legge che un impiastro di fichi applicato ad una grave ferita avrebbe salvato da morte certa Ezechia e dunque il fico  anche salvezza.  La pera, sin dall’antichità è simbolo femminile, poiché la sua forma che si allarga verso il basso è immagine del ventre della donna, di conseguenza legata a Venere con significato di benessere. Per la sua particolare dolcezza è associato alle immagini della Madonna col bambino sottolineando il concetto di dolcezza della virtù. L’uva, se per gli antichi è pianta sacra a Bacco, nelle Sacre scritture è strettamente legata a Gesù che testimonia nel Vangelo “Io sono la vera vite voi i tralci”, dall’uva si trae il vino che per la transustanziazione eucaristica diviene il sangue di Gesù versato per la salvezza. In questa accezione troviamo uva e vino nelle raffigurazioni della Passione e nell’Ultima cena o nella Cena in Emmaus e, con questa accezione salvifica, nelle nature morte, appunto.

Ma Caravaggio si concentra sulle bacature della mela e della pera, sulle spaccature dei fichi e le baccellature delle foglie, sottolinea dunque, come già detto, il venir meno della vita terrena, di conseguenza l’opportunità di una vera salvezza oltre la forte contingenza della cruda realtà, della vita che è sofferenza, lotta, dubbio e contraddizione. In primis la sua stessa contraddittorietà: quale è il Caravaggio autentico? quello che crea capolavori o quello che bighellona giocando e litigando?

La mia personale e convinta scelta è per la netta e assoluta prevalenza del Caravaggio artista, se così non fosse non potremmo avere quegli strepitosi capolavori che ci pongono, ci sbattono in faccia, la cruda verità della vita, a cui però c’è una possibilità di riscatto e qui si evidenzia l’assorbimento della lezione di S. Carlo. E in questo senso, un particolare mi colpisce, sulle foglie riscontriamo delle gocce d’acqua, come rugiada, l’acqua è generatrice, rinnova e purifica: è la possibilità di salvezza.

Se analizziamo la sua intera produzione, in totale di concorde e sicura autografia abbiamo circa 70 opere, vediamo come man mano si riscontra un crescendo verso le tematiche con la realtà della morte terrena che incombe su ogni uomo, ma anche è possibile percepire un aiuto divino per una possibile salvazione, qui una delle connessioni più evidenti con la Controriforma.  Caravaggio è cosciente della debolezza umana ed in particolare della sua, tant’è che negli ultimi anni dipinge quel doppio autoritratto Davide con la testa di Golia in cui esegue, lui stesso idealmente, la condanna a morte che pende sulla sua testa. Va comunque detto che questa interpretazione ha lo scopo di dimostrare la coscienza del suo peccato al Cardinal nepote Scipione Borghese, destinatario del dipinto, perché intervenga nel cancellare la condanna stessa, sapendo quanto il cardinale desideri di possedere sue opere.

Questo crescendo lo vediamo chiaramente nelle varianti della Canestra nella sua pittura. Non sappiamo se un soggetto identico possa comparire o meno nella sua produzione lombarda, prima cioè di arrivare a Roma, ma la troviamo quasi subito nei primi dipinti romani col Ragazzo con canestra di frutta (opera sempre rimasta nella attuale Galleria Borghese e, guarda caso, pervenuta in possesso di Scipione Borghese tramite sequestro nella bottega del Cavalier D’Arpino). Il giovane, con una espressione ammiccante, serena e a bocca aperta, quindi anche a parole, ci offre, appunto, una canestra di frutta, che qui è più fresca, limpida ed acerba nei colori e nella tonalità, la brillantezza dei colori  esalta il realismo dei frutti, anche se sono già visibili alcuni segni di deperimento.  Il Calvesi vede nel giovane un’immagine traslata di Gesù che ci offre con la frutta la possibilità di salvazione.  Poi abbiamo lo splendido Bacco degli Uffizi, che ha dinnanzi a lui, sulla tavola, una “crespina” fruttiera in maiolica di Faenza con una composizione di frutta che è ancor più matura e appassita ed anticipa di poco quella della Canestra. Ad accompagnarla, non è possibile non citarli, la straordinaria trasparenza della coppa di vino offertoci da Bacco e la caraffa nitida e assolutamente limpida in cui vediamo con precisione le bollicine di vino.

Ultima versione nella intensa Cena in Emmaus che si trova alla National Gallery di Londra, dove la Canestra, che diremmo gemella della nostra, è sulla tavola imbandita.  Stessa cesta e identica sporgenza dal tavolo, altrettanto per la frutta con qualche mela in più e l’aggiunta di una melagrana aperta, che iconologicamente assume valore di allegoria della Chiesa nel suo contenere in una scorza esterna molti chicchi, come appunto la Chiesa che accoglie e unisce in una sola fede tanti individui e popoli, ed il Ripa assegna a questo frutto anche il valore di concordia e conversazione, l’essere e lo stare insieme è bene.

Qui abbiamo un Gesù imberbe che sta benedicendo il pane, rivelando così la sua identità e rinnovando, come nelle messe, l’eucarestia. E questo Gesù giovane e senza barba, tipico delle immagini del primo periodo cristiano, si lega indissolubilmente ad un particolare della cesta che è decisamente significativo: se guardiamo bene sulla destra della canestra, l’ombra che questa proietta sulla tovaglia è assolutamente strana, o meglio, reinventata per darle un significato preciso, riproduce puntualmente l’ombra, dalla parte della coda, di un pesce: il pesce è uno dei primi simboli identificativi paleocristiani di Gesù (Ichthus – pesce in greco è acrostico di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) due immagini che si legano a ribadire l’importanza del Redentore.

Una ulteriore dimostrazione di come alla bellezza concreta, di metafisica geometria, dei suoi soggetti si uniscono le numerose simbologie e significati che sostengono tutta l’Arte del Caravaggio, che ha, ancora oggi, perfetta corrispondenza con le esigenze della nostra contemporaneità.  La Canestra assume valore etico nel suo essere una meditazione sulla vita dell’uomo che, parallelamente ai frutti, si consuma nel tempo, da qui il bisogno di un ritorno alla semplicità delle origini, da qui il Gesù giovane. Caravaggio rispecchia e partecipa di quel clima che a Roma si stava vivendo nell’attesa del Giubileo del 1600, in particolare nell’ambito dei filippini e borromaico.

Qui abbiamo l’autentica verità del Caravaggio, uomo e artista, non quello che, ancora, troppo spesso, si continua a voler far passare: il pittore maledetto, come nel film che ho voluto vedere proprio in questi giorni (febbraio 2018) “Caravaggio – l’anima e il sangue”  che non mi ha soddisfatto se non per la chiarezza delle immagini e di un buon uso della luce…Caravaggio docet. Non si può far interpretare il Caravaggio ad un attore con gli occhi azzurri!!!   Numerose, poi,  le stupidaggini e banalità dette, come l’uso della camera oscura. Dovrebbe, ormai, essere più che superata la tesi di fondo del film, della non libertà del Caravaggio, ogni sua opera, per chi ha l’intelligenza per capirla ovviamente, ne è una limpida dimostrazione, sempre… questa ossessione per il gioco e la rissa, che nessuno vuol negare, ma ripeto, è solo un aspetto della sua vita in cui domina in una attenta e continua riflessione il concetto di un rapporto reale col divino.  Non accontentiamoci, cerchiamo veramente di capire, conoscere e condividere ciò che Caravaggio ci dice con la sua straordinaria Arte che è verità e realtà: l’Arte è comunicazione e condivisione…la sua, però.

Con questo dipinto, particolarmente interessante del Figino e che ci dimostra la qualità raggiunta dalla pittura lombarda, è opera che anticipa di qualche anno la Canestra. Di seguito alcuni esempi di nature morte dell’epoca del Caravaggio per un opportuno confronto.

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