PALAZZO ARESE BORROMEO ( 34

ANTICAMERA DIPINTA A SANTI ROMITI

Corrado Mauri 

La penultima Stanza del percorso verso l’Oratorio pubblico presenta una tematica inequivocabile che è quella dell’eremitaggio, viene infatti citata come Anticamera dipinta a S.ti Romito. Infatti l’impostazione delle quadrature è piuttosto austera, con poche concessioni decorative, all’interno di sobrie cornici sono raffigurati cinque Santi che praticano l’eremitaggio ed una scena di martirio.

Questa stanza e la successiva hanno pianta trapezoidale, in quanto entrano nella zona obliqua dell’ala nord, molto probabilmente preesistente alla parte rinascimentale, il che non muta assolutamente le quadrature architettoniche. Queste si impostano su di uno zoccolo a specchiature vuote, agli angoli semplici lesene, con capitello ionico, che contengono le cornici con le scene dipinte. Sopra, un fregio in cui dei peducci piatti pseudocorinzi sostengono la cassonettatura, alla quale sono appesi due festoni grigi, in pietra o marmo. Al centro del fregio è posto un grande cartiglio, con ampie varianti di spirali, in marcato rilievo e dalla tonalità violacea, con al centro dei visi di profilo e laureati con relativa iscrizione che li individua quali imperatori romani. Essi sono contornati da un lieve bassorilievo di alloro. In rilievo una doppia spirale, sotto la quale ad altre semispirali è appeso un nastro con fiocco viola.

Sui sovrapporta est e sud altri cartigli, con varianti di mascheroni, nastri, festoni e frutta, recano delle scritte esemplificative in latino.

Vediamo chi sono gli eremiti: il primo è inginocchiato davanti ad un crocefisso appoggiato sul terreno, con le braccia rivolte in basso e leggermente aperte, guarda verso di noi, accanto c’è una cascatella a balze con sopra un ponticello di legno, un luogo ovviamente solitario. Ha barba e capelli lunghi bianchi e sulla schiena porta il tipico cappello da pellegrino, il prof. Spiriti lo riconosce come S. Francesco[1] in attesa delle stimmate, personalmente non sono d’accordo, in quanto non riscontro alcun elemento della sterminata iconografia del santo in questo particolare episodio, in specie, i capelli bianchi sono sintomo di avanzata età, mentre Francesco è morto a quarantaquattro anni con capelli ancora scuri e per giunta con la tonsura, non ha mai il cappello, ma solo il cappuccio del saio, manca frate Leone, presenza costante ed immancabile sulla Verna. Poi Francesco, tranne momenti di intimo raccoglimento, ha una costante attività pubblica e non da eremita, una modalità di vivere il Vangelo agli antipodi dei Romiti. Deve essere un altro santo, che non è assolutamente facile individuare, troppo pochi gli elementi a disposizione.       

Sull’altra figura non ci dovrebbero essere dubbi, si tratta della Maddalena, che stando alla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze, trascorsi tredici anni dalla resurrezione di Gesù, venne posta su una nave senza pilota, con altri cristiani, tra cui il fratello Lazzaro e la sorella Marta, perché poi naufragassero. Ma il volere divino fece in modo che la barca approdasse a Marsiglia, dove Maddalena trascorse gli anni in una grotta in solitudine, pur predicando il Cristo e compiendo miracoli. Infatti, Lei è qui rappresentata all’interno di una specie di grotta, scavata nella roccia con archi e un paio di pipistrelli che volano, avvolta in un manto rosso ed inginocchiata con la braccia appoggiate ad un ripiano dove ci sono un crocefisso, un libro ed una specie di tabernacolo di legno da cui provenire una luce che le illumina il volto.

Il terzo eremita, nell’ampio paesaggio, è S. Antonio Abate, caratterizzato dai suoi classici ed inconfondibili attributi iconografici. È seduto su un gradino roccioso con accanto la croce, avvolto nel mantello, coperto dal cappuccio ed immerso nella lettura, totalmente indifferente alle sollecitazioni e lusinghe di una fanciulla nuda alle sue spalle, come ad una serie di provocazioni “rumorose” o meno di due demoni avvinghiati all’albero, alle spalle del Santo. Anche in alto volano due uccelli neri con uno strano ciuffo e dal lungo becco, non i soliti sereni e frequenti protagonisti dei cieli nei nostri paesaggi. Il voluto e perseguito distacco lo riscontriamo anche nel compagno fedele del santo eremita, il suo maialino, collega del leone di S. Gerolamo che incontriamo fra poco. Un poco indietro la fatiscente capanna che certamente non offre un particolare e sicuro rifugio.

Anche il quarto romito è problematico da individuare, indossa un saio con cappuccio, è inginocchiato in preghiera, a mani giunte davanti ad una croce e guarda un piccolo angioletto, quasi bianco, che gli appare sopra una casa alquanto mal messa sovrastata da un albero che assomiglia ad una palma, il che farebbe pensare ad un luogo quantomeno mediterraneo, ma con montagne rocciose ed i soliti alberi troncati. Anche in questo caso la proposta del prof. Spiriti di riconoscere S. Eustachio non è condivisibile, nessuno degli elementi descritti ci riporta alla storia di questo santo, che proprio qui, a Palazzo, è ben conosciuta per la Stanza a boscareccia con S. Eustachio, che abbiamo analizzato, e nessun particolare della sua storia è qui individuabile, tanto più per la presenza dell’angioletto e per non aver fatto l’eremita, ma il custode di greggi e quindi per essere stato a contatto con la gente. 

Il quinto personaggio è S. Gerolamo, figura tra le più rilevanti del Cristianesimo, presbitero e monaco, biblista e teologo, profondo conoscitore delle lingue greca, latina ed ebraica, e autore della Vulgata, la traduzione in latino della Bibbia. In tal senso è interessante il testo di una sua lettera in cui controbatte chi lo criticava per il suo nuovo metodo di traduzione (non più da parola a parola) “Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte…” (ecco due ciceroniani: S. Gerolamo ed il nostro Bartolomeo). In più fasi della sua vita ebbe periodi di ascetismo, in particolare quando abbandona Aquileia,  ritorna in Oriente e si ritira nel deserto della Calcide per alcuni anni. Dopo la fase romana con papa Damaso I, rientra ancora in Oriente dove fonda dei monasteri.  Pio V nel 1567 lo proclama Dottore della Chiesa. Nell’immagine, che rispecchia puntualmente la classica iconografia, Gerolamo è inserito in un contesto roccioso con due grandi archi naturali, all’ingresso di una grotta dove, su alcune balze, è inginocchiato e appoggiando il braccio su un grande libro abbraccia un crocefisso. Più avanti il suo fedele leone che si abbevera ad un ruscello, mentre in alto compare l’angelo del Giudizio (qui il solito angioletto) che suona la tromba, né manca il cappello cardinalizio su un ramo a sinistra. Gerolamo è il santo che nella Storia dell’Arte contende a S. Francesco il primato di chi ha il maggior numero di rappresentazioni.

L’ultima scena sulla parete ovest, accanto alla finestra, è il Martirio di S. Pietro da Verona, che abbiamo già analizzato nella Pala dell’altare della Cappella Privata quando, colpito dal suo assassino, col dito intinto nel proprio sangue, in terra scrive “credo”.

Qui invece ha infissa nella testa la roncola, non ha ancora scritto sul terreno e col dito della mano sinistra indica il cielo al suo assassino che, come sorpreso, ha una pausa prima di sferrare il colpo finale. La scena è praticamente una chiara copia del dipinto di Tiziano con identico soggetto, che era nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, purtroppo distrutto da un incendio nell’Ottocento, attualmente sostituito da una copia di Johan Carl Loth del 1691, che qui riproduciamo e che ha praticamente la sola variante in primo piano del confratello di S. Pietro che fugge. Invece qui a Cesano è posto più indietro, per il resto è quasi identico nei gesti e posizione, paesaggio ed angioletti, unica concessione locale le case oltre il bosco.

Le tre scritte latine nei sovrapporta tradotte esprimono uno dei temi fondamentali, ripetutamente espresso nel nostro Palazzo, che è quello della Moderazione: “Le realtà moderate giovano, quelle eccessive infastidiscono”, “Vivi tranquillamente se vuoi morire bene” e “La casa è più stretta dopo la morte”.

Ora passiamo ai tre imperatori del fregio che sono Tiberio (14-37 d.C.), Otone (69 d.C.) e Nerva (96-98 d.C.).

Qui mi discosto totalmente dalla interpretazione che dà il prof. Spiriti[2] che nei tre Cesari vede valori negativi e bassi e, citando Tacito, “esempi di depravazione”. Dalla storia non risulta, anzi. Tiberio dalla forte personalità, aveva un’indole circospetta e sospettosa; schivo nei comportamenti cercava di sottrarsi alle cerimonie ed alle pressioni della corte, si circondava di poche persone fidate, aveva grande capacità tattica militare ed era un buon amministratore.  Applicava una giustizia severa e rigorosa, negli ultimi anni si isolò nella villa di Capri. Otone era una personalità brillante e volitiva, compagno di Nerone, eliminò il rigido governo di Galba grazie alle simpatie del popolo e dei pretoriani, ma pur con l’appoggio del senato e di parte dell’esercito dovette fronteggiare Vitellio, nominato dall’esercito del Reno. Sconfitto, con atto di coraggio preferì uccidersi per evitare una guerra civile, ma vanamente. Con Nerva inizia un lungo periodo di pace; l’imperatore, optimus princeps, riconosce ad ognuno il diritto alla libertà e con l’azione del governo si impegna per il bene del suddito. Durante la celebrazione della vittoria in Pannonia proclama figlio adottivo Marco Traiano, creando in anticipo la sua successione, ciò è un suo ulteriore merito, ma quello più importante è stato di unire la gestione del potere al concetto di libertà. Il quarto Cesare, sulla parete della finestra, è irriconoscibile per le tragiche condizioni dell’affresco, Spiriti lo conferma come Nerone, ma non è per niente convincente, se logicamente deve essere messo in rapporto con gli altri tre, che vedo molto più vicini al concetto aresiano della moderazione. Quindi non esiste un contrasto tra gli eremiti ed i Cesari, anzi pur nella enorme diversità del tipo di vita e di scelte, è proprio nella stessa finalità e risultato del modus operandi, che è il bene comune, che si ritrovano uniti. E le tre scritte lo confermano.

Ma anche sul piano artistico e pittorico la concezione rigorosa, puntuale e ordinata delle modalità rappresentative, sia nelle quadrature sia nei diversi soggetti è di evidente equilibrio e quindi ben lungi dal sottolineare eventuali contrasti, ci conferma per l’ennesima volta la stretta intesa tra il quadraturista Villa e il probabile Ghisolfi. E mi sembra più che logica, nel percorso di avvicinamento all’Oratorio pubblico, la sottolineatura di un ritrovato equilibrio. È, del resto, la constatazione che stiamo compiendo, sin dall’inizio del nostro percorso di visita e conoscenza di Palazzo Arese Borromeo, un continuo e costante confronto ideologico e storico, che è dialettico e propositivo senza mai creare netti contrasti od opposizioni.


[1] A. Spiriti, Verso la chiesa: le ultime sale, in M. L. Gatti Perer  a cura di, “Il Palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno”, Milano 1999, pag. 88-93 

[2] Vedi nota 1