PALAZZO ARESE BORROMEO ( 25

Cappella Privata

Corrado Mauri

Quello che noi oggi intendiamo per Cappella Privata è un insieme di tre ambienti, a cui abbiamo già in parte fatto accenno descrivendo le Sale precedenti. Il primo è il presbiterio dedicato a S. Pietro Martire da Verona, nell’inventario 1762 Oratorio privato dedicato a S. Pietro Martire, già immediatamente predisposto dall’inizio, senz’altro per le preghiere private della famiglia, il secondo una piccola sacrestia, Sagrestietta, e terza la stanza Vestibolo della Cappella dipinto a Istorie Sacre, che con molte probabilità era la camera da letto di Giulio II e che dopo la sua morte nel 1665, viene trasformata nella piccola navata del presbiterio. Una usanza, in particolare spagnola, era quella di avere nella camera da letto, o nelle immediate vicinanze, un piccolo altare o quantomeno un inginocchiatoio per le preghiere. Ciò viene messo in atto, pur con l’Oratorio pubblico dell’Angelo Custode al piano terra, a dimostrazione di quanto l’ambito religioso rivestisse una particolare rilevanza, ma quello che maggiormente mi spinge a una riflessione è il fatto che questa Cappella privata, consacrata nel 1677, circa 14 anni dopo la sua realizzazione, sia stata inserita nell’appartamento di Giulio II e non di altri componenti della famiglia. Indubbiamente perché il giovane era l’erede nominale degli Arese ed in quanto tale, vi era la necessità di mostrare attenzione a questo importante aspetto sia per la sua stessa ed opportuna educazione, che era in atto, sia quale riferimento comportamentale e culturale. Particolari ipotesi su cui riflettere.

È evidente che noi osserviamo il risultato dopo la data del 1665 ed anche quella che potrebbe essere la parte (più antica) originaria, il Presbiterio, ha poi subito delle necessarie variazioni.  Questo è separato dalla camera da una balaustra in ferro battuto dal disegno a cerchi concentrici, che non permette il passaggio diretto alla camera, che avviene tramite la piccola sacrestia. La struttura quadrata del presbiterio è decisamente semplificata: un piccolo altare in legno sopra il quale è affrescata a parete la doverosa Pala con l’immagine di S. Pietro Martire, ornata da una cornice in stucco con alla base una conchiglia, simbolo di resurrezione, con nastro e rosette ed in alto da un cherubino ed altri due ai lati della finestrella, compressi tra due volute. Alle pareti laterali, nelle parti alte, sono presenti le raffigurazioni di due miracoli del santo, a destra Miracolo del piede risanato e a sinistra Miracolo del finto ammalato. Sotto, a destra, vi è una ovvia variazione post 1665, a lato della finestrella che comunica con la Stanza della Boscareccia con S. Eustachio. Vi è inserito il ritratto di un giovane adolescente che si affaccia da una porta e tiene un cero in mano. È scontato che si debba trattare del giovanissimo Carlo IV, figlio di Giulia e Renato II Borromeo, nato nel 1657, che si presenta quale erede effettivo a seguito della morte dello zio Giulio II.   

Ma analizziamo ora gli affreschi cominciando dal S. Pietro da Verona Martire, (1205 – 1252) predicatore domenicano, inviato a Milano da papa Gregorio IX per reprimere l’eresia catara. Egli si stabilì in S. Eustorgio, dove è poi stato sepolto all’interno della Cappella Portinari, nell’Arca di Giovanni di Balduccio e con gli affreschi di Vincenzo Foppa che ne narrano le vicende. Nominato inquisitore per Milano e Como da Innocenzo IV, venne assassinato da sicari nei boschi di Seveso, dove venne poi costruito il Santuario a lui dedicato e che nel 1648 Bartolomeo III fece risistemare, anche con nuovi affreschi di alcuni dei pittori di Palazzo. Il Santo è raffigurato in ginocchio, dopo che col proprio sangue ha scritto sul terreno “Io credo”, nel capo è confitta la roncola o falcastro con cui è stato ucciso e che è conservata a Seveso. Di fronte a lui un angelo gli mostra una croce simbolo, appunto, del martirio, due angioletti gli pongono sopra il capo le tre corone di rame, oro e argento a significare: martire, puro e confessore, altri tre cherubini uniscono le teste in forma triangolare a manifestare la presenza trinitaria e sullo sfondo l’altro sicario sta colpendo il compagno di S. Pietro. I due miracoli laterali del santo sono stati scelti opportunamente in funzione didascalica, quale insegnamento per il giovane Giulio II. Nel Miracolo del piede risanato il santo riattacca ad un giovane il piede che questi si era amputato in segno di pentimento, avendo colpito a calci la propria madre che lo redarguiva, nel Miracolo del finto ammalato il santo scopre un giovane che, svogliato e pigro, si fingeva ammalato.  In merito all’autore dei tre affreschi concordo con la proposta di Alessandro Morandotti, del 2012, di attribuirli a Giovan Battista Costa, che già abbiamo incontrato per il registro superiore del Salone dei Fasti Romani[1]. Qui si evidenzia la sua attenzione ad atteggiare in modo particolare le varie figure, sottolineando la partecipazione di ognuno, con la propria espressività, a quanto sta accadendo. L’altra caratteristica personale è il modo di disegnare le singole fisionomie, sull’ovale del volto in cui è prevalente la luminosità, solo nei tre quarti si evidenzia l’ombra, ma non più di tanto; gli occhi vengono costruiti con tocchi di pennello accentuando l’ombra all’attaccatura del sopracciglio con il naso, quasi a triangolo. La punta del naso è sottolineata dall’ombra sotto di essa e nella bocca a cuore è accentuata l’ombra del labbro superiore. L’effetto è un ovale su cui contrastano e risaltano uniformemente i quattro punti degli occhi, della punta del naso e delle labbra.

Se confrontiamo questo modus operandi col ritratto del giovanissimo Carlo IV, si evidenzia nel volto un modo meno personalizzato di stilizzarlo ed una maggiore attenzione descrittiva ai particolari anche dell’abito, che si rifanno a quello del giovane del piede risanato, ma molto più ricco nei raffinati particolari. Qui direi che, al di là della evidente ripresa dei personaggi che si affacciano dalle porte dagli affreschi di Villa Barbaro Maser di Paolo Veronese, i modi descrittivi riportano alla mano di Antonio Busca. A questo punto una riflessione sui tempi è d’obbligo. Il Carlo IV è obbligatoriamente successivo al marzo 1665, per il soggetto stesso e conseguente significato, mentre i tre affreschi relativi a S. Pietro sono antecedenti. D’ora in avanti incontriamo, sia nella Sacrestietta, sia nel resto della Cappella, uno stile pittorico decisamente più superficiale e privo di personalità, ma più ancora indifferente a quanto viene descritto e narrato. Uno scarto nei tempi deve essere avvenuto per forza, il tragico avvenimento familiare diventa uno spartiacque, il suo difficile superamento e il conseguente cambio di programma nella decorazione di questa Sala esige i tempi necessari, quanto sia trascorso è una incognita, la differenza stilistica lo sottolinea, “circa 1670” propone A. Spiriti. Questa variazione temporale non si nota, invece, nella continua coerenza delle quadrature architettoniche che non presentano alcuna variazione, ma la costante qualità inventiva e stilistica, nonché nella stretta coerenza dei nuovi

soggetti che riflettono una precisa idea. Nell’intera Cappella sono raffigurati undici episodi significativi, in sei è presente da protagonista un angelo, altri undici angioletti sono inseriti in diversi contesti e non dimentichiamo che l’Oratorio pubblico di Palazzo è dedicato all’Angelo Custode, quindi una presenza primaria e significativa quella dell’angelo. Presenza alquanto cara al nostro Bartolomeo e legata a sue convinzioni e scelte decisamente personali. Negli anni Cinquanta e Sessanta del XVII sec. era attivo in Lombardia un movimento detto dei Pelagini, che riprendeva il pensiero del monaco Pelagio del IV sec. d.C. che dava all’uomo la facoltà di scegliere con le proprie forze e idee la pratica del bene, veniva cioè valorizzato il libero arbitrio, indipendentemente dall’intervento divino, assumendosi, quindi, la responsabilità del proprio destino. Non era necessaria la grazia di Dio per la conquista della salvezza eterna, ed è Dio che, alla fine della vita, premia o punisce il buono o cattivo uso fatto dall’uomo della propria libertà. Il senso di responsabilità è uno dei capisaldi del pensiero dell’Arese. I Pelagini a Milano si riunivano nell’Oratorio intitolato a S. Pelagia presso S. Simpliciano dal 1641, con l’autorizzazione dell’Arcivescovo Cardinal Monti e l’Oratorio era sostenuto dallo stesso Arese. Questi nel 1657, chiese all’Arcivescovo Litta di far incontrare gli adepti nella Chiesa del S. Sepolcro, in quanto all’Arcivescovo le autorità religiose avevano chiesto di chiudere l’Oratorio di S. Pelagia. Nei confronti di questa comunità l’Inquisizione aveva agito pesantemente con dure condanne, addirittura a morte, nel 1657 e 1661. Il Litta non aveva intenzione di opporsi alla potenza dell’Arese e decise, mediando, di cambiare l’intitolazione dell’Oratorio non più dedicato a S. Pelagia ma all’Angelo Custode, che era un riferimento di questa comunità[2]. Bartolomeo capisce ed apprezza il comportamento del Litta. Tutto questo ha indubbiamente influito sulle scelte e le particolari attenzioni del Nostro nei confronti del soggetto angeli.  L’intitolazione dell’Oratorio pubblico di Palazzo all’Angelo Custode lo dimostra. Ma, non ho dubbi in tal senso, si evidenzia, ulteriormente, che Bartolomeo pone al di sopra di tutto le proprie salde convinzioni, non teme, nonostante la sua grande esposizione pubblica per i vari ruoli che ricopre, di manifestare le proprie idee, anche se non in sintonia con gli altri poteri, in questo caso la Chiesa Cattolica. Ecco perché continuo a sostenere che questo Palazzo è un capolavoro a sé stante, l’ideologia che lo crea e lo manifesta è unica, perché inestricabilmente connessa e legata ad una forte individualità, che non ha paragoni.

Vediamo i vari soggetti, iniziando dalla Sacrestietta. Sulla parete sud il notturno con il Gesù nell’orto del Getsemani, questi è inginocchiato a mani giunte mentre si volge all’angelo, che ha le ali bianche, il primo della serie, che appare dalle nuvole che lo avvolgono, anche lui inginocchiato, reggendo una croce, simbolo della prossima passione, e porgendo un calice, che rinnoverà, nel tempo, ad ogni messa, il significato della passione stessa. In basso a destra i tre apostoli addormentati, mentre sulla sinistra, in lontananza, Giuda e le guardie che si apprestano a catturare Gesù.

Nella piccola navata, sulla parete est il Sacrificio di Isacco. Le tre figure riempiono completamente la scena, Isacco seminudo è seduto e contorto all’indietro su una specie di altare, costruito con pietre semplicemente sbozzate, ha i polsi legati e la testa è tenuta inclinata dal padre Abramo che si appresta, su comando di Dio, a sgozzare il proprio figlio. Accanto ad Isacco è la legna per il fuoco finale e davanti all’altarolo è già il braciere con le braci accese. Un angelo, dalle ali scure, afferra e blocca il braccio di Abramo e col suo braccio sinistro indica in alto, comunicando la volontà del Signore di interrompere il sacrificio, la fedeltà ed il rispetto dei comandi divini è ormai dimostrata. Sulla parete ovest, abbiamo ben tre scene, a destra un altro episodio legato ancora ad Abramo: Agar e Ismaele nel deserto, infatti è raffigurata Agar, la sua concubina che dopo la nascita di Isacco viene, poi, cacciata nel deserto con il figlio Ismaele dove vengono soccorsi da un angelo. Agar, davanti ad alcuni alberi, è seduta su grosse pietre che riproducono la forma dell’altarolo di Isacco, a seni scoperti sottolineando così, la propria condizione di schiava che doveva dare un figlio ad Abramo. Di fronte a lei in basso la borraccia ormai vuota, dietro steso a terra Ismaele, che preso dalla fame e dalla sete, col dito indica la bocca vuota. L’Angelo, in questo caso è un angioletto, indicandolo con il dito, comunica che lo stesso Ismaele avrà una numerosa discendenza.

Al centro parete un altro soggetto: Elia nel deserto. Anche il Profeta è seduto davanti a degli alberi, si appoggia col braccio ad una pietra ed osserva l’angelo che lo sta esortando a proseguire nella sua missione, alle sue spalle ci sono il pane e l’anfora con l’acqua, portate dal messaggero divino per lui. È interessante osservare come la posizione di Elia e di Agar sono praticamente identiche, quelle dell’ascolto attento della parola del Signore.   A sinistra l’ultimo episodio diciamo angelico: Giacobbe che lotta con l’Angelo, Giacobbe, figlio di Isacco, dopo i vent’anni trascorsi in Mesopotamia (dove ha quattro mogli e dodici figli) ritorna nella terra di Canaan e durante il viaggio deve sostenere, presso il torrente Iabbok, una misteriosa “lotta” con un Angelo, che è figurazione di Dio, rimanendo zoppo e in questo frangente gli viene cambiato il nome in Israele che significa “l’uomo che combatte con Dio” e “Dio è forte”. Anche qui lo spazio è completamente occupato dalle due figure, che, sinceramente, tutto sembrano tranne che essere impegnati in una lotta, danno la sensazione di un incontro, di lieve abbraccio, azzarderei quasi di ballo.

È probabile la scarsa capacità del pittore di trasmettere sul piano emozionale e figurativo, la sua partecipazione al dramma del soggetto che sta rappresentando, ma si potrebbe anche supporre una voluta richiesta interpretativa di Bartolomeo III di non accentuare troppo l’importanza della lotta, per non rischiare di porsi troppo in contrasto con la chiesa. Nonostante la simpatia per i pelagini, quindi, resta l’esigenza di esprimere chiaramente e convintamente la propria totale adesione ai dettami del cattolicesimo da parte di Bartolomeo. Quale luogo migliore allora di questo ambiente legato al figlio Giulio, al dramma della sua perdita e quindi alla famiglia? Da qui la scelta della figura di Abramo, l’uomo che più di chiunque altro accetta, subisce e glorifica la parola ed il volere di Dio senza manifestare dubbi, subisce e applica, annunciando la venuta ed il sacrificio di Gesù, figlio di Dio, nel sospeso sacrificio di Isacco. Ed il disegno divino continua nella famiglia, nei suoi figli Isacco, appunto, ed Ismaele e nel nipote Giacobbe, che lotta sì, ma per ribadire l’incontro e l’adesione al divino, che implica partecipazione e scelte.  Ecco l’identità nell’ascolto della parola angelica di Agar ed Elia. Una ipotesi e proposta di lettura.

Nella Cappella, abbiamo altri due soggetti, sempre nell’ambito delle storie bibliche, ma privi di legami con gli Angeli, e possono mostrarci un ulteriore aspetto del nostro Presidente Arese.  Sono raffigurati nelle due pareti corte, quella del presbiterio, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla serva e di fronte, in controfacciata Giaele che uccide Sisara.  Prima però osserviamo un particolare rilevante alla destra della porta alla sacrestia, una piramide posta su un plinto, un chiaro segno funebre, che qualifica, così, l’intero ambiente. Negli affreschi sono protagoniste due donne che con le proprie doti e una, Giuditta, usando accortamente la propria bellezza, uccidono i comandanti degli eserciti nemici salvando, così, il proprio popolo. Giuditta ha appena decapitato Oloferne e, tenendo ancora nella mano la scimitarra di questi, ne ripone la testa nel sacco tenuto dalla serva. Giaele è invece nel pieno dell’azione e si appresta a conficcare nella tempia di Sisara il piolo della tenda.

Due episodi in cui sono dimostrate le straordinarie qualità di due donne che compiono atti di forza, ritenuti possibili, solitamente, ai soli maschi. Già, più volte, abbiamo puntualizzato quanto il contesto familiare sia coinvolto in questa Cappella, anche per la presenza del giovanissimo nipote Carlo IV, sul quale è, anche, costante una azione di educazione ed insegnamento, da parte del nonno Bartolomeo, con la volontà di lasciargli una eredità storico culturale decisamente significativa. Ma non solo, pur se rimaniamo nel campo delle ipotesi, ma i dati di fatto ci sono, il sottolineare quanto le donne non siano per niente da meno degli uomini, è, da parte dell’Arese, un preannunciare decisioni future, ma a cui sta già comunque pensando, anche in conseguenza della prematura morte di Giulio II. Infatti, nel 1671 Bartolomeo redige il proprio testamento,[3] con il quale lascia eredi universali le due figlie: a Margherita il Palazzo di Milano ed i beni a nord-ovest e sud-ovest di Milano e nord-est di Pavia, a Giulia il Palazzo di Cesano ed i beni in Brianza. È fuor di dubbio la predilezione di Bartolomeo per il Palazzo cesanese e la stessa Giulia, tant’è che si premura di puntualizzare la totale parità tra le figlie, e una tranquilla concordia tra i rispettivi rami Borromeo e Visconti Borromeo. Dobbiamo tener conto di quanto fosse consuetudinaria la tradizione secolare nel lasciare eredi le figure maschili piuttosto che quelle femminili, nessuna legge lo vietava, quindi la scelta di Bartolomeo poteva stupire, ecco perché, da femminista ante litteram, dichiara che le donne sono brave e capaci di gesta notevoli e dunque, perfettamente meritevoli di ricevere la sua notevole e cospicua eredità.    

In merito ai pittori, ho già detto per il Giovan Battista Costa nel presbiterio, per quanto riguarda il pittore delle scene con gli angeli sulla base dell’inventario 1762, si fa il nome del Bizzozero per la Sacrestietta e, fra parentesi, per il Vestibolo della Cappella dipinta a Istorie Sacre. In questi affreschi, l’unica perplessità è per quello con la Giuditta, che mi sembra una via di mezzo tra il Busca e questo Bizzozero, un’ipotesi è che questi all’inizio possa guardare e rifarsi al Busca, per poi proseguire (purtroppo) in un suo modo più semplice e meno impegnativo. Un particolare sottolinea una identità tra i due affreschi e sono i due elmi, appoggiati a terra nello stesso modo e le spade, quasi identici. Una pittura che ci pare del tutto descrittiva, che non va oltre la semplice capacità di illustrazione, una anatomia alquanto corriva, l’uso di una luce che si preoccupa di ogni singolo particolare e che non uniforma la scena.  Il tutto impostato praticamente sempre sul primo piano, con effetto di appiattimento. Una pittura che illustra e non partecipa. Questo pittore risulta essere Federico Bizzozero sulla base di una documentazione d’archivio; qui riporto la nota 27 della Monografia “Palazzo Arese Borromeo” nei Quaderni di Palazzo Arese Borromeo, n 3, terza edizione – 2014, dell’Associazione Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo, “Nelle trascrizioni dei pagamenti ad artisti conservate in Archivio Palazzo Arese Jacini – Biblioteca Civica Cesano Maderno, si trova un pagamento della Cassa di Giulia Arese dell’11 agosto 1677 al pittore Federico Bizzozero per non specificate “sue opere fatte a Cesano”. Di fatto poco o niente si conosce di questo pittore, se non che fu, forse, il fratello di Ottavio Bizzozero di cui si hanno notizie dal 1680 al 1690 come autore di alcuni ritratti che corrispondono stilisticamente alla pittura di Federico. Il problema è la data di questa nota di pagamento: agosto 1677 cioè tre anni dopo la morte di Bartolomeo III, 1674, e lo stesso anno della consacrazione ufficiale della Cappella. Qui le ipotesi possono essere varie, mi limito a quella che per le mie conoscenze sul nostro Palazzo mi sembra la più logica. Come abbiamo già detto le opere di pittura nella Cappella dopo il 1665 subiscono variazioni ed interruzioni e soprattutto cambiamenti nel programma iconologico. Quindi non ci sono dati elementi per immaginare quale possa essere stata la tempistica per la scelta dei nuovi soggetti, ma che spetti comunque a Bartolomeo non c’è dubbio. E l’impostazione generale è e rimane confermata dalla coerenza delle quadrature architettoniche, come vedremo, e per il semplice fatto che queste precedono obbligatoriamente l’esecuzione dei singoli soggetti. Le date dei pagamenti delle opere è ampiamente dimostrato che possono tranquillamente non corrispondere al momento di esecuzione, in quanto potevano passare anche parecchi anni prima che il pittore fosse pagato. Considerando l’affresco con la Giuditta la differenza riscontrabile potrebbe anche essere spiegabile con l’inizio del dipinto nella prima fase della Cappella da parte, se non dello stesso Busca, da un suo stretto collaboratore che poi sospende la pittura, ripresa in seguito dal Bizzozero. Potrebbe essere possibile, quindi, anche una esecuzione prossima o successiva alla morte di Bartolomeo, in quanto la stessa Giulia completa, con grande rispetto, le volontà del padre nel completamento del Palazzo. E questo renderebbe più accettabile la qualità non eccelsa di questi affreschi. Ciò che mi lascia perplesso è come mai Bartolomeo si sia accontentato e non abbia preteso il meglio qualitativamente, come è avvenuto costantemente sino a questo punto, non c’era di meglio in questo particolare frangente? La possibile esecuzione al di fuori del suo personale controllo, potrebbe essere una logica spiegazione, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi.

Altrettanto significativa è la parte quadraturistica della Cappella, sia per qualità e quantità di spazio occupato, concorrendo a confermare e sottolineare quanto detto sino ad ora. La puntuale continuità stilistica non può che confermare la mano di Francesco Villa. Direi che nel proseguire il suo costante impegno nel Palazzo, va man mano chiarendo le sue modalità sia stilistiche, sia inventive, rendendo le quadrature stesse non solo un complemento, ma parte integrante dei soggetti rappresentati, come l’Architettura di questo ambiente.

Nell’inventare, non a caso uso questo verbo, lo spazio della Sala, lo trasforma in una chiesa a tre navate, amplificandolo notevolmente e inserendo delle colonne su dei plinti. Nelle navatelle laterali, poi crea letteralmente un soffitto moderno, non più di legno a passasotto, ma aperto sul cielo, come se ci fossero delle lastre di vetro (notare i probabili sostegni sporgenti) che lasciano entrare la luce con le relative ombre proiettate. Nelle corte pareti delle navatelle sono puntualmente raffigurati tutti gli elementi, porte, lesene e capitelli in perfetto senso di continuità con il resto della decorazione. Questa si caratterizza e si differenzia nei suoi componenti con una sempre più attenta colorazione: cartigli verdi, fregi a motivi geometrico-floreali grigio azzurri, capitelli dorati, festoni naturalistici, borchie e reggifestoni bronzei. Perfetta corrispondenza nelle pareti lunghe, con varianti

per la presenza di porte o finestre, che alternano schemi semplici a più complessi, dove troviamo dei festoni color viola o dei putti seduti con elementi araldici.  Uno, con la spada, che abbraccia la Fenice, sopra il vano del presbiterio lo abbiamo già descritto nella Galleria delle Arti Liberali in merito al ciclo, appunto, della Fenice, gli altri due sono: uno sulla finestra al Giardino che solleva col braccio destro le ali Arese, l’altro sulla porta alla Galleria che tiene una corona, anche qui ancora marchionale e non comitale, ma espressione, comunque, di nobiltà (vedi stemma Sala Rovine).

Confrontandoli con i putti della Sala dei Fasti Romani, in questi si evidenzia maggiormente il tocco immediato del Villa, non essendoci la velatura. Tuttavia, la realizzazione è particolarmente delicata, forse perché il soggetto lo intenerisce. 

I capitelli dorati sono una variante dello stile corinzio più schematizzato nella parte bassa e ionico sopra con l’inserimento, al posto della tradizionale voluta, di un uccello, che, come già spiegato nella Galleria delle Arti Liberali, è la Fenice, che popola tutta la Cappella, nel suo significato di rinascita spirituale. Gli echini al di sopra dei capitelli, anche qui, hanno ormai le consuete foglie che si trasformano in maschere dalle varie espressività.  I rigogliosi festoni, appesi al centro da fiocchi azzurri o rosa, hanno colori vivaci ed evidenziano la ormai consueta e immediata pennellata, ben attenta alla luce.

Nela zona altare e nella piccola sacrestia, le quadrature escono dal consueto repertorio, aderendo alle specifiche esigenze del rito o del racconto evangelico. Alla destra dell’altare in legno, c’è la finestrella sulla stanza della Boscareccia con S. Eustachio, sotto cui abbiamo decorazioni fitomorfe.  Verso la finta porta con Carlo IV, in una piccola nicchia di marmo rosso, abbiamo le due ampolle del vino e dell’acqua per la messa, perfettamente difronte un’altra identica nicchia col relativo campanello. Nella sacrestia alcuni soggetti ovviamente legati al tema della Passione: sulla porta che conduce all’altare abbiamo un piatto metallico, visto dal sotto in su (che ha la stessa deformazione prospettica dei vasi col ciclo della Fenice, che abbiamo già osservato nella Galleria delle Arti Liberali, a conferma della mano del Villa) nel quale sono messi una frusta di liste di cuoio e dei

flagelli vegetali a ricordarci la Flagellazione. Sotto l’apertura sull’altare è dipinta la corona di spine, sopra la porta che va alla navata, su un piano aggettante che si restringe verso l’alto è raffigurato l’episodio della Veronica fuso con la Caduta di Gesù nella Salita al Calvario.  Non ho dubbi ad assegnare sempre al Villa anche questa scena narrativa di straordinaria efficacia ed essenzialità, costruita con la sua pennellata ricca di materia e soprattutto utilizzando la luce più che le ombre, come abbiamo già visto altre volte. La prevalenza dell’effetto luminoso è, comunque, bilanciato da quei pochi segni netti e praticamente neri, che non solo sottolineano i contorni, ma rendono l’intensità delle stesse ombre; la scelta del monocromo violaceo accentua la drammaticità. Certo l’anatomia non è delle migliori, le mani di Gesù e della Veronica sono approssimative, come il piede del Cristo, le cui dita arrivano alla metà del piede stesso, e la stessa gambetta del Cireneo lascia a desiderare nelle proporzioni. Ma l’effetto d’insieme è notevole, efficace, ci dà il senso pesante del salire nelle tre figure maschili inclinate verso l’alto e parallele alla croce. E altrettanto efficace è quella figura praticamente solo disegnata, dietro, anche lei inclinata e mossa verso l’alto, che ci suggerisce l’idea dello spazio in cui si svolge l’azione, a cui assistono altre persone suggerite dai segni alle spalle del Cireneo. Indubbiamente la particolare rilevanza di questi soggetti religiosi ha suggerito al nostro quadraturista, forse sarebbe ormai opportuno usare più il termine di pittore che non rinchiuderlo nella sua esclusiva specializzazione, di non inserire ulteriori elementi decorativi che potessero distrarre dalla concentrazione sui temi religiosi. Infatti non riscontriamo altri particolari se non delle lastre ad imitazione di superfici marmoree sotto l’Orto degli ulivi ed un’altra accanto alla corona di spine. Altri nuovi elementi decorativi li notiamo nel profilo in alto sopra i piani delle pareti e le lesene a libro, una serie di piccole ed alte nicchie occupate sino alla metà dei cilindri dorati, quasi un’anticipazione del neoclassicismo.   



[1] Alessandro Morandotti, comunicazione verbale al Convegno “Ville di delizia al nord di Milano nell’età barocca: famiglie committenti della vecchia e nuova nobiltà” Palazzo Arese Borromeo, Cesano Maderno, ott. 2012 – Linda Arnaudo Giovan Battista Costa. Un trascurato protagonista del barocco lombardo, Tesi di Laurea, Università di Torino, 2015

[2] Marina Napoletano, L’Angelo Custode e gli angeli nella dimora cesanese di Bartolomeo III Arese. In Quaderni di Palazzo Arese Borromeo, n° 2 novembre 2014.    – Gianvittorio Signorotto, L’eresia di Santa Pelagia. Inquisitori e mistici nel Seicento. Il Mulino, Bologna 1989.

[3] Pubblicato dal Comune di Cesano Maderno ed a cura del prof. Andrea Spiriti. Il Testamento di Bartolomeo III Arese. Dipartimento di Informatica e Comunicazione, Università dell’Insubria, Varese 2004.