PALAZZO ARESE BORROMEO (22

GALLERIA DELLE ARTI LIBERALI

Corrado Mauri

A questo punto torniamo al percorso ufficiale delle visite guidate, continueremo più avanti l’analisi delle Sale verso l’Oratorio ed ancora da restaurare. Riprendiamo dal pianerottolo dello Scalone degli Stemmi di fronte alla porta che immette nella Galleria delle Arti Liberali, sulla quale c’è un cartiglio con un testo, in latino, che annuncia quanto vedremo: “C’è chi parla persuadendo, chi dicendo cose reali o poetiche, chi dipingendo, stando dentro le cose dipinte; chi canta e chi fa di conto. 1663”.  

Abbiamo ormai preso atto di come non siamo in una residenza di campagna o villa tradizionali, ma in un Palazzo dove si vive molto bene, serenamente e immersi, soprattutto, in una atmosfera di continua e costante sollecitazione ideologica e culturale. Dalla porta che stiamo attraversando si accede agli appartamenti di Giulio II e, in fondo alla Galleria, di Bartolomeo III e l’idea del privato neanche ci sfiora, l’apparato artistico rimane immutato e di grande pregnanza, rimaniamo in quello che viene detto il “quartiere sapienziale”.  Infatti, in questa Galleria sono raffigurate, come fossero delle statue poste su basamenti e nelle pareti tra le finestre che si affacciano al cortile, le Arti Liberali e nella parete di fronte per ognuna, un personaggio storico inerente. Nei lati corti, ai lati delle porte, sempre come statue, due figure allegoriche, il tutto organizzato nelle quadrature architettoniche, che si articolano in una serie di colonne lisce con capitello composito ionico-corinzio con peducci a piccole rosette o maschere alternate.

L’architrave presenta il solito fregio floreale, negli spazi tra le colonne sono inserite le finte statue in un monocromo color oro alternate alle finestre nel lato cortile o alle porte e finte finestre nella parete difronte. Il soffitto della Galleria è l’unico del piano nobile che è dipinto in nove riquadri, con putti che hanno una serie di emblemi inerenti alle Arti e araldici degli Arese, Omodei e Borromeo, creando con le pareti un insieme coordinato.  Entrando, sul lato sud ci sono quattro finestre dipinte alternate ai personaggi, inizialmente, erano presenti delle vere finestre che si affacciavano sul cortiletto delle Scuderie, queste sono ancora presenti nell’inventario del 1716 ma evidentemente erano una presenza disturbante per l’unitarietà della Galleria e si è, quindi, deciso di chiuderle con un muro e ridisegnarle ad affresco in perfetta coerenza con il resto della decorazione. Questo intervento, con buona probabilità potrebbe essere stato fatto dal conte Renato III Borromeo Arese quando a metà settecento riordina alla moderna la zona dopo la Galleria, tra cui la Sala dei Motti e l’Anticamera alla Moderna, come vedremo più avanti.  

Per comprendere e leggere puntualmente come ogni figura delle Arti Liberali sia stata rappresentata, ci avvaliamo di un testo ben preciso l’ICONOLOGIA di Cesare Ripa, la cui prima edizione è del 1593 (nel 1603 si aggiorna anche con illustrazioni ad incisione) che propone la descrizione iconografica di allegorie e concetti astratti traendolo dai repertori delle botteghe d’arte delle varie epoche, oggi indispensabile guida per capire e decifrare quei codici simbolici ormai praticamente sconosciuti[1].

Nel lato corto d’ingresso c’è la statua dello Studium “Un giovane di volto pallido, vestito d’abito modesto…con la sinistra mano terrà un libro aperto, nel quale miri attentamente, con la destra una penna da scrivere e gli sarà a canto un lume acceso et un Gallo.

Giovane si dipinge, percioché il giovane è atto alle fatiche dello studio. Pallido, perché quelle sogliano estenuare et impedire il corpo…Si veste d’abito modesto, percioché gli studiosi sogliono attendere alle cose moderate e sode…L’attenzione sopra il libro aperto dimostra che lo studio è una veemente applicazione d’animo alla cognizione delle cose. La penna che tiene con la destra mano significa l’operazione e l’intenzione di lasciare, scrivendo, memoria di se stesso…Il lume acceso dimostra che gli studiosi consumano più olio che vino. Il Gallo si pone da diversi per la sollecitudine e per la vigilanza, ambedue convenienti e necessarie allo studio”. Il libro sotto il piede esprime la conquista ed il valore di quanto si è già studiato e diventa proprio dominio. Nell’aspetto del giovane possiamo intravvedere una seconda riproposta della fisionomia di Giulio II, come già in Sala Aurora, e questo perchè pensiamo che Bartolomeo padre voglia che la Galleria sia propedeutica al giovane studente per accompagnare gli studi del figlio anche e proprio come percorso fisico; non a caso, ci si avvia al suo appartamento. E chi meglio di uno tra i maggiori filosofi della Classicità può sovraintendere a questo percorso culturale se non Aristotele, che ritroviamo nel sovrapporta, a fianco, all’interno del timpano semicircolare? Il cartiglio sopra il busto non ha alcuna scritta, ma il riconoscere la sua ormai tradizionale fisionomia è più che scontato. L’altro cartiglio sopra lo Studium è esemplificativo di quanto abbiamo appena scritto: “Perspicimus studio” cioè “Abbiamo compreso grazie allo studio”.  

La prima Arte Liberale che incontriamo è la Grammatica, il cartiglio sopra la sua immagine reca la scritta “NOS VERBA – noi usiamo le parole”,“Donna che nella destra mano tiene una raspa di ferro, e con la sinistra un vaso che sparge acqua sopra una tenera pianta. Grammatica è prima tra le sette arti liberali, e chiamasi regola e ragione del parlare aperto e corretto. La raspa dimostra che la grammatica desta et assottiglia gl’intelletti. E il vaso dell’acqua è indizio che con essa si fanno crescere le piante ancor tenerelle de gl’ingegni nuovi al Mondo, perché diano a’ suoi tempi frutti di dottrina e di sapere, come l’acqua fa crescere le piante stesse”.  La lima e l’acqua sono metafore delle regole che coordinano e perfezionano il linguaggio rendendolo facile e comprensibile.

Di fronte abbiamo il corrispondente personaggio storico il cui cartiglio dice “GRAMMATICUS – Maestro, Erudito” Aristarchus ovvero Aristarco di Samotracia (215c. – 143c. a.C.) filologo alessandrino, discepolo di Aristofane di Bisanzio e suo successore nella direzione della Biblioteca. Grammatico acuto e preciso, fautore del metodo analogico, nelle sue edizioni critiche è esegeta attento alla lettera dei testi, poetici o meno, di Esiodo, Alceo, Pindaro ed in particolare di Omero, di cui diede un esempio di critica attenta, severa e rigorosa. Infatti, sul libro aperto che tiene in mano leggiamo il nome “Home/rus”. Nei due paesaggi boschivi alle spalle delle due statue riscontriamo la costante di alberi con rami rigogliosi o spezzati.

La seconda Arte è la Retorica, sul cartiglio è scritto “PROBABILE – atto a persuadere”  “Donna bella, vestita riccamente,con nobile acconciatura di testa, mostrandosi allegra e piacevole; nella mano destra terrà uno Scettro, e nella sinistra un Libro, portando nel lembo della veste scritte queste parole “Ornatus persuasio”et il color del viso sarà robicondo. Non è uomo sì rustico e sì selvaggio che non senta la dolcezza d’un artificioso ragionamento in bocca di persona feconda, che si sforza persuadere qualche cosa; però si dipinge bella, nobile, e piacevole. Il Libro dimostra che quest’arte s’impara con lo studio per non aversi da alcuno in perfezione per dono di natura…Lo Scettro è per segno che la Rettorica è regina de gli animi, e gli sprona, raffrena, e piega in quel modo che più gli piace”. Nell’immagine tutto corrisponde puntualmente, tranne la mancanza della scritta sull’abito, ma è presente una zona danneggiata nella parte bassa dell’abito e quindi potrebbe essere scomparsa.  Il cartiglio del personaggio è quasi scontato “RHETOR – Oratore” e con Bartolomeo non poteva essere alcun altro personaggio a rappresentare la Retorica se non il suo amato Cicerone, strenuo difensore dei più alti valori civili. Straordinario oratore e scrittore, questi creò un proprio stile unico in cui il pensiero si manifesta logico, preciso e ampio con una espressività armonica e regolata.La parola fu la sua arma prodigiosa, che pur manifestandosi nella sontuosità della forma, non venne mai meno alla concretezza del vivere quotidiano ed alla esaltazione delle migliori attività dello spirito umano. L’immagine lo raffigura nel gesto ampio dell’oratore, in abito semplice e con ai piedi i fasci littori, in una versione molto semplice, come appena raccolti e fasciati semplicemente e non nella versione ufficiale, come nel Salone dei Fasti Romani, forse a sottolineare le origini popolane di Cicerone, riscontrabili nella stessa modalità con cui è ritratto il volto calvo, poco corrispondente ai ritratti scultorei conosciuti.

Terza Arte liberale la Logica. Il cartiglio ha la scritta “VERUM – il vero” “Donna con la faccia velata, vestita di bianco, con una sopraveste di varii colori; mostri con gran forza delle mani di stringere un nodo in una corda assai ben grossa e ruvida; vi sia per terra della canapa, overo altra materia da far corde. La faccia velata di questa figura mostra la difficoltà, e che è impossibile a conoscersi al primo aspetto…Il color bianco nel vestimento si pone per la simiglianza della verità, la quale è ricoperta da molte cose verisimili, ove molti fermando la vista si scordano d’essa che sotto colori d’esse sta ricoperta…La corda dove si stringe il nodo mostra che la conclusione certa è quella che sta principalmente nella mente del logico…e le sue prove fondate con la sua arte sono nodi indissolubili o per forza o per ingegno di qual si voglia altra professione; la ruvidezza della corda mostra la difficultà della materia..”. Un’altra lettura per la presenza del velo sul volto è nell’esigenza di nascondere le diverse espressività che si manifestano nel volto stesso e che possono interferire, in un dibattito, nel rigore del ragionamento, con delle varianti sentimentali. Il personaggio corrispondente, il cui cartiglio cita “LOGICUS – Teorico della Logica” è Zenone di Elea, filosofo greco (490 c. – 431 a.C.) che mise al servizio del suo Maestro Parmenide la sua notevole abilità nella Logica e nella Dialettica, di questa, intesa come tecnica della confutazione, sarebbe lo scopritore, a detta di Aristotele. Conosciuto per i suoi Paradossi, afferma che la realtà è immobile, rifiutando l’esperienza sensibile e del movimento. Diogene narra che Zenone dopo il fallito tentativo di uccidere il tiranno Demilo (o Nearco) si staccò la lingua con i denti, sotto la tortura, per non denunciare i suoi complici, a questo drammatico atto può far riferimento il gesto del braccio destro alzato, con la mano chiusa, che simboleggia la lingua staccata.

Quarta Arte Liberale la Poesia, il relativo cartiglio cita “GESTA VIRÛM – le azioni degli uomini”. “Giovane bella, vestita d’azzuro celeste…sarà coronata d’alloro, mostri le mammelle ignude piene di latte, col viso infiammato e pensoso, con tre fanciulli a’ lati…uno le porga la Lira et il Plettro, l’altra la Fistola, et il terzo la Tromba. Poesia, secondo Platone, non è altro che l’espressione di cose divine eccitate nella mente da furore e grazia celeste. Si dipinge giovane e bella, perché ogni uomo, ancorché rozzo, è allettato dalla sua dolcezza e tirato dalla sua forza. Si corona di lauro, il quale sta sempre verde e non teme forza di fulmine celeste, perché la Poesia fa gli uomini immortali e gli assicura da’ colpi del tempo…Le mammelle piene di latte mostrano la fecondità de’ concetti e delle invenzioni, che sono l’anima della Poesia. I tre fanciulli sono le tre maniere principali di poetare, cioè Pastorale, Lirico, et Eroico, le quale dipendono più dall’abilità naturale che dall’arte, dicendosi per commune opinione che gli Poeti nascono e gli Oratori si fanno”.  La targa sulla statua del personaggio, recita  ”VATES – Poeta” sul basamento non c’è il nome, ma è scontata l’identificazione con Omero, coronato d’alloro, con lo sguardo basso, probabile segno della cecità,  e una lira accanto ai piedi.  

Abbiamo poi la Pittura “COLORATA – dipinta”. “Donna bella, con capelli neri e grossi, sparsi e ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate che mostrino pensieri fantastichi, si cuopra la bocca con una fascia ligata dietro a gli orecchi, con una catena d’oro al collo, dalla quale penda una maschera, et abbia scritto in fronte ”imitatio”. Terrà in mano il pennello e nell’altra la tavola, con la veste di drappo cangiante et a piè di essa si potranno fare alcuni istromenti della pittura per mostrare che la pittura è esercizio nobile, non si potendo fare senza molta applicazione dell’intelletto…Si dipinge questa immagine molto bella, e che la bellezza noti nobiltà, si vede perché l’una e l’altra è perfezione, e l’una e l’altra è degna d’imperio…si suol credere che dove sono belle qualità del corpo vi sieno per lo più quelle dell’animo, e dove è bellezza vi sia nobiltà…Le ciglia inarcate mostrano maraviglia, e veramente il Dipintore si estende a tanta sottile investigazione di cose minime in se stesse per aiuto dell’arte sua che facilmente n’acquista maraviglia e malinconia. La bocca ricoperta è indizio che non è cosa che giovi quanto il silenzio e la solitudine…Tiene la catena d’oro, onde pende la Maschera, per mostrare che l’imitazione è congionta con la pittura inseparabilmente. Gli anelletti della catena mostrano la conformità di una cosa con l’altra…La qualità dell’oro dimostra che, quando la pittura non è mantenuta dalla nobiltà, facilmente si perde, e la maschera mostra l’imitazione conveniente alla Pittura…Ha bisogno dunque la Pittura della imitazione di cose reali, il che accenna la maschera, che è ritratto della faccia dell’uomo”. Anche qui, possibili altre letture: in merito alla benda sulla bocca il silenzio indica che la Pittura si comprende con gli occhi e uno sguardo attento, senza ascoltare altro. La maschera è, come ci insegna il Teatro, una espressione che ne copre un’altra nascosta e quindi va sollevata onde capire l’altra che è sotto, per comprendere ulteriori messaggi e significati, che sono stati mimetizzati sotto le immagini.  Particolare la elaborazione dei capelli, che diventano una ricca acconciatura, con abbondanti riccioli…”ritorti in diverse maniere” qui giocati con gioiello e nastri che amplificano le linee compositive e accentuano il dinamismo della figura, nella quale percepiamo, anche, nel potenziale movimento dei passi, un senso di progressione. In questa pseudostatua della Pittura, rispetto alle altre, si evidenzia un particolare senso di vitalità, che ci trasmette una indubbia emozione, probabile identificazione del pittore col soggetto stesso.

Anche la pseudostatua del Pittore storico è interessante, fa riferimento al pittore dell’antica Grecia Zeusi, che operò tra V e IV sec a.C. e si dice inventore della pittura da cavalletto e talmente bravo che quando dipinse dell’uva molto realisticamente, gli uccelli, ingannati, andavano a beccare il dipinto, come vediamo raffigurato nell’affresco. Se osserviamo l’abito di Zeusi notiamo che è l’unico, di tutti i personaggi della Galleria, che non è all’antica, ma cinquecentesco, con altri due indizi specifici, un cappello con la falda inclinata di traverso ed una medaglia al centro, un’altra medaglia è appesa ad una catena di traverso alle spalle. Questo ci porta ad un riferimento preciso nei confronti del pittore Giovanni Paolo Lomazzo (1538 – 1592), di cui alla Pinacoteca di Brera c’è un autoritratto con questi riferimenti.

Discreto pittore manierista che, da una prima lezione di Gaudenzio Ferrari (di cui era nipote) tramite il Della Porta, risente di Bernardino Luini e, dopo un viaggio a Roma, manifesta un tormento michelangiolesco che si permea dello sfumato leonardesco dandoci una pittura particolare nel clima milanese, dove nell’accentuato chiaroscuro che esalta i colori notturni vi è una costante attenzione all’espressività dei personaggi. Diventato cieco, inizia una intensa attività storico letteraria nell’ambito della pittura e dell’Arte; nel 1584 pubblica un Trattato dell’Arte della Pittura e nel 1590 Idea del Tempio della Pittura. La medaglia che ritroviamo sul cappello è quella della Accademia Dei Facchini della Valle di Blennio (nel Ticinese), della quale il Lomazzo era l’abate. Qui artisti, musicisti, artigiani e teatranti si ritrovavano in dibattiti culturali usando però il dialetto locale. Lo stesso Lomazzo pubblica suoi testi poetici I Grotteschi in italiano e i Rabish in dialetto[2]. Personaggio, questo Lomazzo, decisamente intrigante e quindi particolarmente indicato per le qualità pittoriche ma anche storico-letterarie, a suscitare l’interesse del Presidente Arese.


La Musica “Donna giovane, a seder sopra una palla di color celeste (non nella Galleria dove è d’obbligo, ovviamente, lo stare in piedi), con una penna in mano, tenghi gli occhi fissi in una carta di musica…Lo stare a sedere dimostra esser la musica un singular riposo de l’animo travagliato. La palla scuopre che tutta l’armonia della Musica sensibile si riposa e fonda nell’armonia de i cieli conosciuta da Pittagorici, della quale ancora noi per virtù d’essi participiamo, e volontieri porgiamo gli orecchi alle consonanze armoniche e musicali. Et è opinione di molti antichi gentili che senza consonanze musucali non si potesse avere la perfezione del lume da ritrovare le consonanze dell’anima e la simmetria, come dicono i Greci delle virtù. Il foglio di musica mostra la regola vera da far partecipar altrui l’armonie in quel modo che si può per mezo de gl’occhi…” Nel cartiglio è scritto “VOCUM MODULO – canta melodiosamente” mentre in quello del personaggio “Citharœdus – canta al suono della cetra”, impersonato da Arione, che pare accordare la cetra. Egli è figura più mitologica che reale, suonatore di cetra, cantante e poeta. La leggenda narra che si arricchì grazie alle sue doti artistiche, perciò in un viaggio di ritorno in Grecia i marinai, volendo impossessarsi delle sue ricchezze, lo volevano gettare in mare e lui chiese di cantare una ultima volta in onore di Apollo. Con il suo straordinario canto attirò dei delfini intorno alla nave; gettatosi in acqua un delfino lo caricò sul dorso e lo portò a terra, in salvo, e lo ritroviamo, appunto, dietro le gambe di Arione.

Ai lati della pseudostatua del Pittore abbiamo due porte, la prima conduce alla Stanza che immette alla Galleria delle statue e l’altra alla Cappella privata, poi abbiamo la figura di Arione e un’altra falsa finestra, molto significativa. Infatti, al di là della finestra è dipinta una fanciulla bionda, con abito rosso e risvolto bianco che copre le spalle e le maniche, fiocco nei capelli anche qui bianco e rosso. Abbiamo un altro di quegli inserti di contemporaneità importanti e significativi, ma l’elemento che richiama l’attenzione e dà all’insieme uno specifico significato è l’asta che serve a chiudere la finestra. Non è inserita nel fermo, è inclinata e libera, dunque la finestra è aperta ed al di là di essa c’è la giovane donna. Abbiamo visto che la Galleria è legata allo studente Giulio II, il galletto dello Studium lo sveglia al mattino presto e studia, la lanterna accesa alla sera gli permette di studiare ancora, direi che il messaggio al figlio è più che chiaro da parte del padre Bartolomeo, ma questi è uomo, è stato giovane, e a certe necessarie distrazioni non si può dire di no, si salta la finestra e si trova la necessaria compagnia, non a caso l’abito rosso ricorda il tipico colore delle cortigiane. Questo particolare non va assolutamente sottovalutato, ci dice quanto Bartolomeo è sì, uomo di grande cultura e di grandi valori, ma è uomo della realtà con cui fa i conti quotidianamente, proprio per i suoi vari ruoli, e ne tiene conto, giustamente e con grande attenzione, nell’educazione del proprio figlio ed erede. Constatiamo ancora una volta quanto questi episodi di realtà contemporanea, il fattore o l’Amministratore, sono determinanti a costruire e inserire nel tempo la cultura, che è altrettanta realtà.       

L’ultima Arte Liberale è l’Aritmetica, la targa recita “PAR IMPAR – Pari e Dispari”. “Donna di bello aspetto, nella destra mano tiene un uncino di ferro, nella sinistra una tavola imbiancata, e nell’estremo del vestimento vi sarà scritto PAR ET IMPAR. La bellezza sarà indizio di perfezione de i numeri, de i quali credevano alcuni Filosofi, che tutte le cose si componessero, e Dio, dal quale non può proceder cosa che non sia perfetta, il tutto fece in numero, in peso, et in misura, e questo è il vero soggetto dell’Aritmetica. L’uncino di ferro e la tavola imbiancata dimostrano che con quelli istromenti si sa la cagione in diversi generi d’essere, e le cose composte per lo numero, peso e misura de gli Elementi. Il motto ”Par et impar” dichiara che cosa sia quella che dà tutta la diversità de gli accidenti a quest’arte e tutte le dimostrazioni”.   

La figura storica scelta è alquanto scontata ed è Pitagora, il cartiglio altrettanto ovvio: “Arytmeticus”, ed è raffigurato con una Y in mano, in quanto gli è stata attribuita tale introduzione nell’alfabeto, ma senza alcun tipo di conferma storica. La sua vita è avvolta nel mito. Si suppone una data di nascita intorno al 578 a. C. circa; allievo di Talete, compie numerosi viaggi e si stabilisce a Crotone, nella Magna Grecia. Per lui il compito del sapere è di favorire la progressiva purificazione dell’anima tramite la conoscenza dell’ordine superiore dell’universo. Determinante la riflessione sui numeri, con la quale si riteneva in grado di spiegare la struttura atomica dell’universo e con questo metodo studiò i suoni elementari e le armoniche. Gli si attribuisce l’impostazione di una geometria razionale dove suddivide le pratiche di calcolo (logistica) con la scienza dei numeri (aritmetica). A lui, intorno al 530 circa a. C., si deve la fondazione della prima vera e propria scuola filosofica, con rigide regole di ascetismo nei comportamenti.  La storia della Scuola Pitagorica è decisamente lunga, circa dieci secoli, il che crea una notevole incertezza su quali dottrine appartengano a lui e quali ai suoi seguaci. Nella scuola era in atto il rigido principio di autorità, espresso dalla formula del: “ipse dixit”, ma la dottrina fondamentale era quella per cui l’essenza delle cose sta nei numeri e nei rapporti matematici.  Famoso il teorema dei triangoli rettangoli o dei numeri irrazionali. Va riconosciuto, al di là della rigidità dei comportamenti, che alla Scuola erano ammessi sia gli uomini sia le donne, unico caso nell’antichità.  

A chiudere i lati lunghi della Galleria abbiamo una identica soluzione sia a destra, sia a sinistra con un plinto che su una base che si restringe verso l’alto ha una pigna, perfettamente identica a quella che abbiamo sul pianerottolo della Scala degli Stemmi sotto lo stemma papale.  Qui, nella Galleria, manca il riferimento religioso, e il significato di eternità e fertilità lo possiamo tranquillamente traslare all’ambito della cultura e delle Arti, i personaggi che sono celebrati nelle statue rimangono famosi ed importanti nei secoli, per l’eternità, per i grandi valori che ci hanno trasmesso e che continueranno a farlo.

Nel lato corto, puntualmente identico a quello d’ingresso, abbiamo una statua allegorica e la porta che immette nell’Anticamera al moderno, nel sovrapporta un busto. 

La pseudostatua rappresenta l’Ingenium, nel cartiglio è scritto “INGENIO INSPICIMUS – esaminiamo con l’ingegno”. “Un giovane d’aspetto feroce et ardito; sarà nudo, averà in capo un elmo, e per cimiero un’Aquila; a gl’omeri l’ali di diversi colori. Terrà con la sinistra mano un arco, e con la destra una frezza, stando con attenzione in atto di tirare. Ingegno è quella potenza di spirito che per natura rende l’omo pronto e capace di tutte quelle scienze ond’egli applica il volere e l’opera. Giovane si dipinge, per dimostrare che la potenza intellettiva non invecchia mai. Si rappresenta con la testa armata, et in vista fiero et ardito, per dimostrare il vigore e la forza. L’aquila per cimiero denota la generosità e sublimità sua, percioché Pindaro paragona gli uomini di alto ingegno a questo uccello,  avendo egli la vista acutissima,et il volo di gran lunga superiore a gli altri animali volatili.  Si dipinge nudo e con l’ali di diversi colori per significare la sua velocità, prontezza nel suo discorso, e la varietà dell’invenzioni. L’arco e la frezza in atto di tirare mostra l’investigazione e l’acutezza”… 

Il busto, inserito nel timpano curvilineo e senza alcuna scritta nel cartiglio, come nell’Aristotele, è facilmente identificabile in Giulio Cesare. Non è il caso di descrivere l’importanza, sia nell’ambito militare che civile, di questo grande uomo d’azione, che dà l’avvio alla fase imperiale romana, ma è anche uomo di letteratura (sappiamo tutti  del “De bello gallico”, in cui narra la conquista della Gallia).

Ecco che in fondo alla Galleria abbiamo un grande uomo concreto nel suo agire, che assieme al grande uomo di pensiero Aristotele, costituisce uno dei due punti di riferimento fondamentali per la carriera del giovane Giulio.  Partendo dallo studio, camminando e crescendo nella conoscenza, si giunge all’azione, alla messa in pratica di quanto si è appreso.  Nella Galleria si manifesta concretamente uno, se non il pensiero autentico di base dell’uomo Bartolomeo, la continua e perseverante ricerca e manifestazione della sapienza e della cultura che diventa guida e vita reale per ogni uomo che vuole essere tale nel vero senso della parola. Tutto quello che abbiamo visto sino ad ora lo ha detto chiaramente, senza alcun dubbio.  A questo proposito, mi ritorna in mente una visita guidata che feci più di dieci anni fa ad un piccolo gruppo di persone sempre molto attente, che facevano continue domande ed eravamo proprio nella Galleria, ormai al termine, quando uno di loro se ne usci con una esclamazione di entusiasmo: “Fantastico, questo è un luogo ideale!”. Alla mia richiesta di chiarimento mi disse che era il Maestro di una Loggia e che la Galleria sarebbe stata l’ambiente ideale per il rito di iniziazione dei loro adepti e se fosse possibile svolgerlo. Gli dissi che bisognava rivolgersi ai responsabili dell’Amministrazione comunale, non senza delle mie perplessità, che non manifestai, ovviamente. Alquanto indirettamente, ma una ulteriore conferma, onde ci fosse bisogno, della rilevanza simbolica della nostra Galleria.  Tant’è che abbiamo ancora quattro argomenti prima di concludere: il soffitto dipinto, i pittori, le quadrature e il ciclo dei vasi.

Come accennato prima, qui abbiamo l’unico soffitto ligneo dipinto del piano nobile, su assi e con pittura a resine oleose. Al di là degli elementi decorativi, nei nove scomparti abbiamo una serie di putti alati volteggianti che recano una serie di oggetti che appartengono o simboleggiano le varie Arti Liberali nei primi sette, i simboli araldici degli Arese e dei Borromeo negli ultimi due. Vediamone alcuni.

All’interno della cornice rettangolare, nel soffitto si presenta una apertura poligonale mista, che ripropone il famoso sfondato del Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova. Sullo sfondo del cielo due putti con le ali volteggiano e nelle mani tengono degli emblemi relativi, in questo caso, alla Grammatica: un cartiglio su cui sono scritte le prime tre lettere dell’alfabeto A B C, uno stilo ed una sferza (si riferisce ad altra descrizione della Grammatica del Ripa, qui non riportata). Negli angoli le due ali dello stemma Arese, completate da inserti vegetali, sono alternate a due aquile imperiali.

Nel pannello con ottagono irregolare (ricorda la cornice dei due affreschi col Palazzo nella Sala del Castello), relativo alla Logica, un putto reca la catena che si riferisce alla concatenazione logica, l’altro un triangolo equilatero a cui non si fa riferimento da parte del Ripa. È simbolo trinitario per i cristiani, della luce nell’antichità o massonico nei tre gradi del regno animale, vegetale e minerale o del giusto parlare, pensare ed agire oppure, ancora, della nascita, maturità e morte.  Negli angoli quattro Leoni Omodei che tengono le ali Arese. Nel pannello della Pittura i putti raddoppiano, due, come a Mantova, interferiscono con la cornice e sono a cavalcioni, gli emblemi sono i pennelli con tavolozza, un foglio disegnato, uno stilo, un compasso e una riga. Negli angoli due Leoni Omodei alternati ad aquile imperiali.

Gli ultimi due pannelli creano un problema cronologico, infatti nell’ottavo pannello abbiamo il putto di sinistra con spada e corona, probabilmente riferendosi alla nobiltà, quello centrale tiene, una per mano, le ali Arese sollevandole e quindi sono separate e per giunta quasi nere, il terzo putto, di schiena, tiene nella mano sinistra e in basso i tre anelli Borromeo. Nell’ultimo le ali Arese sono tenute e sollevate nelle destre dei due putti, quindi sempre separate e nelle mani sinistre, verso il basso, ancora i tre anelli Borromeo e un piccolo serpente, che qui, tra le numerosissime sue simbologie, credo vada visto come capacità di energia rinnovatrice.

Il riferimento alla morte di Giulio II, marzo 1665, giunta nel momento in cui si stava terminando il soffitto, è più che evidente nella separazione delle ali Arese e, come abbiamo già visto, ogni accadimento nella famiglia Arese porta a varianti nella decorazione del Palazzo. Pur nella tragedia familiare, non si cambia il rivolgersi al futuro ed ecco quindi, già immediato, il passaggio ereditario ai nuovi congiunti i Borromeo: con la morte dell’unico figlio maschio il ramo principale degli Arese si estingue.

Se nel soffitto c’è un cambiamento, nella Galleria, iniziata nel 1663, ma non sappiamo in quale mese, non sono presenti cambiamenti, ma la cosa è più che ovvia, il programma unitario di questo ambiente era ben impostato sin dall’inizio ed ha una valenza ideologica culturale che va al di là di qualsiasi accadimento storico o familiare che sia, quindi andava completato esattamente come previsto ed integralmente.  

Ora affrontiamo il capitolo dei Pittori, che è alquanto complesso in quanto lavorano più mani. Partendo dall’inventario del 1762 in cui si fanno più nomi, “..chi ha dipinto nella Galleria sono Montaldo, Lanza, Bizozero..”, ripresi anche in documenti successivi con varianti, Lanza – Zenca – Zonca, ma probabilmente  ci si riferisce ad Antonio Busca.  Come abitudine ho predisposto delle immagini schema per fare un confronto più preciso delle modalità pittoriche.  Ho accostato quelle che si evidenziano per la stessa mano.

Cioè le figure di Aristarco, Arione, Grammatica, Musica, Pittura e Retorica, a cui aggiungiamo Zenone e la bella figura dell’Ingegno (qui non riprodotte). Ben dritte nelle loro pose, con gestualità contenuta, hanno un uso molto attento e calibrato della luce con lievi passaggi di modellazione del chiaroscuro, che si concentra nei punti di ombra, ma senza evidenziare le linee, un gioco ampio ed armonioso delle pieghe delle stoffe, una lieve riduzione della dimensione della testa rispetto al corpo, tutto questo mi porta abbastanza convincentemente a Giovanni Stefano Doneda, il Montalto. Anche se qui nella Galleria si contiene molto nell’uso della luce che solitamente domina con più libertà, pensiamo agli affreschi dell’Aurora o della Chiesa Cattolica.  

Avevo già predisposto per il Salone dei Fasti Romani un’immagine confronto per le pseudostatue dei personaggi romani a cui, ora, ho aggiunto alcune della Galleria per poter evidenziare i possibili rapporti.  

Una consonanza di mano e modalità tra le statue dei Fasti e quelle della Galleria è più che evidente. Con le tre Arti in alto a destra, come abbiamo appena visto, si evidenzia la diversa modalità pittorica, mentre con le tre in basso: Aritmetica, Logica e Studio, questa consonanza è abbastanza evidente per l’uso di un chiaroscuro essenziale e di una linearità più accentuata. Quindi riferire queste ultime ad Antonio Busca è abbastanza plausibile, salvo l’intervento di aiuti e bottega sempre in atto. Quindi al Busca assegnerei: Logica, Aritmetica, Cicerone, Omero, Pitagora dove il chiaroscuro è meno modellato più netto ed in particolare si sente forte la linea che tende ad irrigidire le stoffe e l’anatomia, con una maggiore flessuosità dell’atteggiamento dei corpi. Ci sono poi le due figure dello Studio e del Pittore Zeusis, che mi lasciano più perplesso, riscontrando in entrambe un avvicinarsi ai modi del Montalto, ma anche del Busca, come una via di mezzo tra i due pittori: un più marcato gioco luministico, una proporzionalità più attenta ed una modellazione sensibile (Montalto), un segno piuttosto rigido (Busca), come se trai due pittori si fosse realizzato uno scambio reciproco. Rimane la Poesia, già mi viene difficile attribuire al Busca la sola figura della donna, ma assolutamente non sono suoi i tragici bimbi, in specie quello con la cetra, vero e proprio insulto all’anatomia, non è da scartare l’ipotesi per questo risultato di possibili ridipinture a seguito di umidità. Allora, al di là di qualche scarso aiutante, fare il nome del Bizzozero potrebbe essere un’altra ipotesi, la vedremo affrontando la Cappella Privata.    In merito ai due busti di Aristotele e Giulio Cesare, per la loro puntuale resa fisionomica data più dal disegno che la descrive e puntualizza, che non da un sciolto chiaroscuro, le assegno ad Antonio Busca.  

In merito alle Quadrature possiamo tranquillamente proseguire, constatando e confermando i progetti e l’esecuzione di Francesco Villa, il cui contributo è fondamentale per l’unitarietà della decorazione di tutto il piano nobile.   

Anche qui mi avvalgo di una delle tavole rielaborata dagli studenti del Corso di Laurea in Architettura del Politecnico di Milano con i quali ho collaborato nel 2013-4 per i rilievi architettonici di Palazzo, dove nella visione d’assieme si evidenzia chiaramente l’impostazione di alternanza di statue e finestre con l’inserimento delle colonne lisce, con piccolo basamento e capitello pseudo ionico.

La trabeazione su cui poggia il soffitto ligneo è sporgente. Sulle finestre vere o dipinte e sulle porte vi è un elemento decorativo con bassorilievi alternati alle ali Arese o un uccello ad ali aperte. Sopra questo è posto un vaso metallico che cambia ogni volta e che analizzeremo più avanti. Su ogni statua il relativo cartiglio con le definizioni, su cui rispettando la luce reale si accentua l’effetto di luminosità.

Il capitello è di impostazione corinzia e voluta ionica ed è doppio in quanto dietro la colonna c’è una lesena con appunto l’altro capitello identico. Sopra, un peduccio in cui rosette e piccoli mascheroni si alternano a forme lineari fitomorfe. Il tutto sempre differenziando ogni elemento dagli altri con i colori e dipingendo con le consuete pennellate ricche di materia più nelle luci, che si evidenziano sempre più rispetto alle ombre. In tal senso un altro schema può evidenziare questa variante, osservando il procedere, sala per sala, dell’uso della pennellata in specifico nelle luci. Dal Capitello nel Salone dei Fasti Romani si passa a quello nella Sala del Castello, nella Stanza dei Vasi e in questi della Galleria. Potrebbe anche essere che questa variazione dipenda dalla luminosità più o meno intensa delle varie Sale, è indubbio che la Galleria sia uno degli ambienti più luminosi, visto il numero di finestre, la pittura si adegua alle specifiche caratteristiche ambientali.

Quando il Villa dipinge i piccoli mascheroni sui peducci, non li interpreta come semplici elementi decorativi, ma ad ognuno dà una sua espressività e personalità, ad ognuno dipinge un colore diverso negli occhi, diventano occhi veri, con il consueto piccolo strabismo.   

Nella trabeazione le volute, più o meno vegetali, hanno un accentuato andamento curvilineo, per creare un contrasto con le linee rette dell’architettura. Sotto le finestre, si alternano pannelli che hanno una specie di croce greca centrale e volute laterali con altri in cui è presente la testa di un leone che tiene nella bocca lunghi nastri. La presenza del Leone quale emblema del potere, della forza e del coraggio ed anche della giustizia, ben figura nella Galleria affiancando un percorso di conoscenza sapienzale.     

È nei sovra-finestre che le quadrature si caratterizzano con elementi nuovi, legati ad una particolare narrazione che faremo fra breve. Si tratta di elementi che rimangono all’interno dei limiti della cornice decorativa della finestra, con andamento superiore semicircolare che nel fronte presenta un uccello in altorilievo con ai lati due piccoli pinnacoli, che possono suggerire l’idea di fiamma, in cima un vaso metallico alquanto elaborato.  

Alternati a questa specie di altaroli, ne abbiamo altri che hanno, invece, una forma semi triangolare smussata e sporgente, nel fronte una specie di peduccio su cui appoggiano, inclinate verso l’alto, due specie di foglie,  che suggeriscono le ali Arese, anche qui, sopra, un vaso appoggiato. Ovviamente le modalità della pittura sono quelle del Villa.

Il ciclo dei Vasi della Galleria. Nei primi anni di frequentazione del Palazzo, sinceramente, non ho fatto caso in modo specifico a questa serie di vasi, pur constatando che sono diversi l’uno dall’altro, ma considerando che ciò rientrava nella determinazione generale di non ripetere mai anche i più semplici elementi decorativi, li ho ritenuti propri di questo specifico ambito. Successivamente la mia attenzione si è soffermata sui capitelli della Cappella Privata, che presentano anche loro degli uccelli, forse aquile, ma non molto convincenti. Infatti, se li osserviamo bene, un particolare evidenzia la differenza con l’aquila ed è il collo, qui un po’ troppo lungo. Un altro collegamento è stato con un altro uccello raffigurato nella Sala dei Motti sulla porta che conduce all’Anticamera al moderno, in questo caso l’identificazione dell’animale è chiara, sotto l’uccello ci sono delle fiamme, quindi si tratta della Fenice, l’uccello mitico che ogni 500 anni muore nelle fiamme e risorge dalle proprie ceneri, infatti nella parete est della stessa Sala è riportato un testo poetico dove al terzo rigo si cita la Fenice: “..Qual, nel rogo vital, arsa fenice..”

La presenza dello stesso tipo di uccello nella Galleria mi ha spinto ad osservare con maggior attenzione i 16 vasi, allora ho preso atto che le differenze non sono solo nelle forme, ma hanno aspetti e presenze ben precise che li qualificano e quindi costituiscono la raffigurazione dell’intero ciclo vitale della Fenice. Ne ebbi conferma parlandone con Massimo Benzo (vedi Salone dei Fasti Romani), anche lui giunto a questa conclusione.  

La Fenice è un uccello mitologico che accompagna i popoli antichi a partire dagli Egizi fino ai Greci e Romani, ma è presente anche in Cina, Giappone ed India. Per gli egizi era Bennu, dall’aspetto simile all’aquila reale, con uno splendido piumaggio dorato, piume rosse nel petto, coda azzurra con penne rosa, ali d’oro e porpora,  becco allungato, due piume, una rosa l’altra azzurra sul capo. Cantava così straordinariamente da incantare gli dei. Di tradizione viveva 500 anni (con numerose varianti) e quando sentiva giungere la fine predisponeva un nido in cima ad una quercia o palma, con piante aromatiche, vi si adagiava e cantava mentre i raggi del sole la incendiavano; in circa tre giorni dalle ceneri rinasceva la nuova Fenice. Questo ri-sorgere ne è la caratteristica unica, come quella di essere sola, nessun altro esemplare viveva contemporaneamente. Nella tradizione ebraica la Fenice viene chiamata Milcham, i padri della Chiesa accolsero la tradizione ebraica e fecero della fenice il simbolo della resurrezione della carne, infatti ricorre spesso nelle immagini delle catacombe. Il primo bestiario cristiano Il Fisiologo cita la fenice: “C’è un altro volatile che è detto fenice. / Nostro Signore Gesù Cristo ha la sua figura e dice nel Vangelo: “Posso deporre la mia anima, per poi riprenderla una seconda volta”.  Ecco quindi che questo mitico uccello si fa simbolo della rinascita spirituale. Gli alchimisti chiamavano Fenice la pietra filosofale.

Ho voluto puntualizzare tutto questo per evidenziare come mai questo leggendario animale abbia così spazio nel nostro Palazzo. La spiegazione, che mi do come possibile, è che abbiamo ben visto quanto Bartolomeo Arese punti continuamente sul bisogno per ogni uomo di crescere, senza sosta applicandosi nella conoscenza. Sulla base di questa conoscenza, è necessario assumersi in prima persona la responsabilità delle proprie scelte, in modo cosciente, fare appello a se stessi per operare al meglio. Ed allora scegliere un simbolo come la Fenice che ha in se stessa la capacità di rinascere, senza altri interventi, mi pare più che ovvio, quasi naturale.

Ma è questo particolare di affresco, riportato sopra, che mi dà la tangibile conferma della mia ipotesi. Sempre nella Cappella Privata, nella parte in alto, prima del piccolo presbiterio, abbiamo questo putto che tiene una spada nella destra e con la sinistra il cartiglio con il motto Arese “Per lealtà mantener” e si abbraccia alla Fenice che lo cinge a sua volta con l’ala, non credo ci sia altro da aggiungere.

Ecco qualche immagine della Fenice da bestiari medioevali per un confronto con la nostra di Palazzo.

Vediamo ora le immagini della nostra Fenice, sono molto simili tra di loro ed anche a quelle dei bestiari medioevali, a volte il collo è più lungo o più corto, tutte con la testa che guarda in basso, una ha testa piccola e corpo abbondante, ma una cosa che mi sorprende è che sulle otto fenici ben tre hanno l’ombra della testa non corrispondente alla realtà, ma ruotata dall’altra parte, che sia un errore del pittore mi sembra un po’ eccessivo, quindi è forse una modalità per togliere realtà all’immagine e ricordare che è un animale di fantasia.

Le ali Arese, raffigurate qui sotto, in effetti non hanno il classico disegno delle penne, ma sono una via di mezzo tra forme vegetali e animali. Solitamente le ali si uniscono dalla parte che è attaccata all’animale e non dalle punte, come qui. Anche qui un possibile modo per staccarsi da un preciso contesto di realtà.

Nel percorso concernente i vasi non ci sono un inizio ed una fine precisi, neanche si possono trovare collegamenti con le Arti od i personaggi. Seguiamo il percorso dall’ingresso e qui abbiamo già due vasi potenzialmente significativi, a sinistra con Aristarco, che forse potremmo dire coinvolto, se prendiamo il suo indicare col dito indice proprio in direzione del vaso. Questo ha una decorazione a spicchi, il coperchio è tenuto sollevato dai manici e sono evidenti dei riflessi rossi sia sotto il coperchio, sia alla base, come una presenza di fiamme, l’inizio di un incendio.

Sempre all’ingresso, ma a destra, dove c’è la Grammatica, dal vaso, privo di coperchio, escono delle fiamme, siamo al momento successivo, rispetto al precedente, l’incendio è in atto. Un particolare che possiamo rilevare è che le fiamme hanno lo stesso colore del vaso, non sono verosimili, solo nella parte alta della fiamma qualche fiammella in rosso.

Il vaso successivo è quasi identico al primo, ma in alto appoggiati abbiamo due frutti, diciamo probabili mele con delle foglie. Il significato è decisamente problematico, è un elemento che non risulta in nessuna leggenda sulla Fenice, anche perché non mangiava frutta o animali, si nutriva di vegetali aromatici. Potrebbe significare il ritorno alla vita, ad una situazione naturale dopo la morte.  

Sempre dalla parte delle Arti, il vaso ha delle protomi con anello in bocca, sul coperchio appare la Fenice, sempre nella stessa identica posa degli altorilievi, è rinata, torna alla vita per altri 500 anni.

Particolarmente interessante è il vaso accanto alla Pittura: è composto da due sezioni molto elaborate ed uno strano elemento sul coperchio non ben identificabile, ma nell’insieme potrebbe essere una specie di animale con piccola testa ed uno dei due occhi grande, una specie di ampio collare sulle spalle, una palla davanti alla pancia ed una specie di coda. Quella che è più intrigante è l’ombra che è chiaramente quella di una scimmia con una lunga coda ad uncino e pelosa, ma l’ombra ha effetti di controluce. Un po’ di mistero non guasta.

Ci sono poi una serie di vasi che hanno decorazioni molto diverse, ma nessun particolare, diciamo, narrativo. Un aspetto disegnativo che riscontro è una accentuazione della inclinazione della visione dal sotto in su e il non puntuale parallelismo dei cerchi inferiori, ma comunque non è opera di bottega, troppo intrigante e creativa la serie dei vasi perché il Villa affidi a qualcun altro questa ulteriore sfida e gioia creativa.

A conclusione altri due vasi sono molto interessanti, uno è accanto ad Arione e presenta due ali che spuntano da dietro, quasi il vaso fosse il corpo della Fenice. Sembrerebbe che tra gli elementi decorativi, al centro del vaso, vi sia una forma piena con delle piume, una specie di anello e di sopra, ma non leggibile, un collo o una testa. È comunque un passaggio che, nella narrazione, anticipa la comparsa della Fenice intera, ma non è posto nel luogo giusto cronologicamente, che dovrebbe essere prima del vaso che ha sul coperchio la Fenice intera. Ma, credo, non dobbiamo essere troppo razionali se vogliamo godere di queste continue varianti  della narrazione e conseguenti rappresentazioni.

Sopra l’affresco della fanciulla bionda dietro la finestra, e forse non a caso, c’è il vaso, che ritengo, in assoluto, il più interessante e ricco di significati. Prima di tutto in cima c’è la Fenice, con la piuma più evidente sul capo, che però è come sdraiata sul coperchio, con le ali aperte di profilo come ad avvolgere il vaso stesso, quasi a proteggerlo e guarda con attenzione il leone degli Omodei che tiene nelle zampe le ali Arese, al centro del vaso stesso, questa creazione araldica è, come abbiamo visto, costantemente ripetuta nel soffitto della Galleria. Nel Palazzo della Farnesina a Roma, negli affreschi raffaelleschi della Loggia, con la storia di Amore e Psiche, nella scena in cui Mercurio accompagna Psiche al momento sponsale, di fianco a lei è raffigurata la Fenice quale simbolo dell’unione matrimoniale. A Cesano la Fenice, cioè la Mitologia, si fa partecipe dei titolari del Palazzo. Notevoli poi i due manici che, senza nessuna mimetizzazione, sono due serpenti, le cui teste sono vicine a quella della Fenice e compiono un cerchio con il corpo. Qui, come precedentemente, i serpenti hanno valenza positiva, quali presidii nei riti della fertilità e simboli di rinascita, ecco lo stretto rapporto con la Fenice, per il loro mutare di pelle ogni anno.  L’insieme è quindi immagine di buon auspicio per la casata, se collocata poi sopra la dama in rosso, che era funzionale al giovane Giulio Arese.

Dunque ulteriormente ribadita la finalità della Galleria a supporto del futuro degli Arese, anche se, purtroppo, annullata da un destino crudele.

[1] Cesare Ripa ICONOLOGIA a cura di Sonia Maffei, Testo stabilito da Paolo Procaccioli. Einaudi, Torino 2012

[2][2] RABISCH. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, l’Accademia della Val di Blennio, Lomazzo e l’ambiente milanese. Catalogo Mostra, Lugano -Skira 1998