PALAZZO ARESE BORROMEO (11

SALA DELLE ROVINE

Corrado Mauri

Immaginando di essere ospiti importanti degli Arese, dal ballatoio entriamo nella Sala delle Rovine, Stanza grande del letto verde, seguendo cioè il presunto percorso riservato alle Personalità, cioè attraverso le Sale di grande Rappresentanza.


Qui prendiamo atto concretamente della notevole rilevanza delle quadrature architettoniche che non solo fanno da cornice ai soggetti raffigurati ma decisamente alterano la sensazione dello spazio reale amplificandolo, dando quel senso di monumentalità che non abbiamo riscontrato nell’architettura esterna. Da qui in avanti possiamo percepire una sensazione di ridondanza e sontuosità che è tipica del Barocco, e la ricerca delle contraddizioni, in questo caso tra interno ed esterno, è aspetto tipicamente seicentesco.  Però dobbiamo riscontrare che le quadrature non rispondono agli stilemi barocchi ma sono un puntuale riferimento agli stili della Classicità (altra contraddizione) rientrando nelle scelte del nostro committente.  

Vediamo ora le singole pareti e come si caratterizzano le quadrature. Nella Sala abbiamo due finestre sul lato ovest, sono quindi una ottima fonte di luce con una direzionalità ben precisa. Il quadraturista (il Francesco Villa come ipotizzato precedentemente) tiene puntualmente conto di ciò e realizza di conseguenza le luci e le ombre con le giuste intensità e inclinazioni.  La quadratura presenta un ampio basamento con mascherone centrale di volti femminili, che hanno diverse espressioni, orecchini o fiocchi e volute alari o vegetali.   

Sul piano esecutivo è da rilevare la scioltezza del tocco, la sicurezza di modellazione a singole pennellate e la velocità di esecuzione, come la successiva ripresa della linea sul panno sotto il volto.   Sono presenti doppi pilastri: quello interno poggia su un plinto, che aumenta il gioco illusionistico dei volumi nella Sala. Decisamente articolata la parte alta con un capitello pseudodorico che si rifà ai triglifi e un peduccio ionico sotto cui sono presenti altri mascheroni, qui maschili, con fiocco, sempre con varie espressioni e di colorazione bruno-arancione.  È presente una cassonettatura rettangolare o esagonale, quella al centro della parete, con una rosetta centrale da cui pendono, legati da nastri azzurri, dei festoni poi legati agli echini.  Sui festoni sono presenti mele, pere, uva, melograni, in segno di abbondanza.  Nella realizzazione di questi elementi riscontriamo costantemente la medesima disinvoltura pittorica a confermare la stessa identica mano di notevole qualità.

Nella parete sud osserviamo ora i soggetti che vengono raffigurati all’interno della quadratura architettonica. Immediato il rilevare la presenza dominante di antichi monumenti in rovina, sui quali cresce ormai una libera vegetazione a sottolineare il senso di abbandono, in un contesto paesaggistico che si apre in profondità sino al lontano orizzonte.  Una serie di personaggi ravvivano le scene, colti in vari atteggiamenti. Una particolarità sta nel fatto che i paesaggi ruinistici dipinti all’interno di ogni quadratura non sono a sé stanti e separati o diversi dagli altri, ma costituiscono invece una unitarietà continua, le quadrature appaiono come una loggia dalla quale possiamo osservare il paesaggio unitario che la circonda.  Ecco che ci si propone di nuovo il rapporto interno esterno incontrato al piano terra, la Loggia di Palazzo non è costruita a caso, ma è la constatazione, il vivere fisicamente questo rapporto, che proveremo di persona anche nelle prossime Sale.

Ecco poi una grande colonna sull’angolo di una  imponente costruzione, dietro alla quale un viandante compie una necessità quotidiana ed un collega poco più avanti, altrettanto poco rispettoso, contro un muro di un vecchio tempio. Più avanti, difronte ad un tempio circolare con nicchie e relative statue, due persone di cui una su una scala, l’altra, forse un prete, stanno affiggendo un avviso sul muro. Il tempio antico, che si intravvede dietro l’alto albero, continua e si presenta nella scena successiva, più dietro un grande arco e avanti ancora un altro con sullo sfondo delle case in cima ad una alta scogliera che si affaccia su un porto. Un probabile mendicante col cagnolino è appoggiato ad un muro, mentre più avanti un uomo con cappello fa dell’elemosina, più a destra un cavaliere con dama e bambino osservano il panorama, in riva due pescatori. Dunque, episodi della più semplice quotidianità, che si innestano in contesto di rovine in decadimento. Altrettanto avviene nella parete ovest, tra le due finestre, dove è ancor più accentuato, nel lento degradare delle tonalità, lo sguardo sul lontano orizzonte.

Alla parete nord abbiamo delle consistenti varianti, prima di tutto la presenza di un camino, ricostruito nei restauri degli anni Novanta. A tal proposito, nella fase di transizione della proprietà del Palazzo tra i Borromeo Arese ed il Comune di Cesano Maderno è risaputo della sparizione proprio di camini, lastre ed altro, che…si potrebbero riscontrare non troppo lontano.  Sopra il camino è dipinto un grande stemma sorretto da putti, con una corona comitale (in realtà è marchionale, ma viene usata con una certa libertà almeno sino alla definizione voluta e sancita da Maria Teresa d’Austria nel milleottocento) e vari emblemi. 

A dare la sensazione che lo stemma è inserito nello spazio reale della scena è la visione leggermente dal basso e appena di tre quarti. Teniamo conto che noi proveniamo dalla Scala degli Stemmi e questo non vi è inserito, anzi viene collocato al centro della parete in una Sala di particolare rilevanza. La sua dimensione è considerevole e tutto ciò che lo circonda è significativo. Si tratta di uno stemma composito o di Alleanza: su campo rosso c’è il leone fasciato e le scalette Omodei, su campo oro le due aquile dell’Impero e degli Asburgo, in campo bianco al centro le ali Arese e sotto il castello con le torri, l’oca e i biscioni dei Visconti di Brebbia.  Riconfermata la fedeltà agli Asburgo, gli altri due stemmi segnano l’acquisita parentela tramite matrimoni, del nostro Arese con Lucrezia Omodei e della seconda figlia di Bartolomeo, Margherita, con Fabio Visconti. Viene dunque celebrato, in modo particolare, il legame con queste due famiglie che qui in Cesano sono molto meno rappresentate rispetto ai Borromeo, che ne saranno poi gli eredi e che, infatti, qui non compaiono. La rilevanza dello stemma è data, anche, dall’insieme di quanto lo circonda, in primis, in alto, il motto degli Arese “Per lealtà mantener” (decisamente conforme alla personalità del nostro Presidente) su di un cartiglio avvolto alla spada di un braccio d’armatura retto da un putto che tiene con l’altra mano un elmo, altri due putti reggono la corona comitale degli Arese, sontuosamente gemmata. Sotto, altri due putti reggono lo stemma, dove a sinistra abbiamo un libro (la Cultura), una spada e bilancia (la Giustizia), due galeri cardinalizi di familiari (la Religione) una bandiera di reggimento e altro Elmo piumato (sostegno ai Reggimenti Militari della monarchia). Ma lo stesso paesaggio che fa da sfondo è significativo, infatti vi è parzialmente raffigurato l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come Colosseo, davanti al quale è raffigurato il colosso Nerone-Elio (enorme statua abbattuta dopo la morte dell’imperatore). Sul prato di fronte a

 a questo vediamo una figura seduta che sta disegnando la statua, è senza dubbio l’autoritratto di Giovanni Ghisolfi, l’autore di questi paesaggi, che sceglie questo punto, sotto il grande stemma, onde voler significare quanto si sentisse protetto dalle nobili famiglie. Riprenderemo l’argomento più avanti. Di fronte ai resti di quello che potrebbe essere il Tempio di Saturno, un cacciatore che mira ad alcuni uccelli e poco dietro un probabile protiro di una antica basilica paleocristiana, con un fontanile di recupero. Il rapporto quadratura-interno e paesaggio-esterno continua anche sopra le porte e sempre nella parete nord vediamo che un uccello si è tranquillamente posato sullo stipite.

Altrettanto significativa la parete est che ci offre una possibile concretizzazione del significato delle rovine. Nei due specchi tra i pilastri, viene meno il senso di ampia profondità e c’è una maggior presenza architettonica. In primo piano abbiamo una costruzione alquanto indefinita, che è un incrocio tra un arco di trionfo, con parecchi elementi decorativi e un portico voltato: come tutto il resto, è in decadimento. Dietro invece, ci sono delle costruzioni nuove e diventa imprescindibile il confronto tra l’antico e il moderno ed è in questo che troviamo un significato concreto per la Sala. È un dato di fatto storico che anche le più grandi civiltà del passato prima o poi scompaiono ed a queste ne succedono altre.

Il concetto di “Rovina” è legato al sentimento del sublime che nasce dal contrasto tra la precarietà della quotidiana condizione umana con la caduta dei grandi imperi del passato, testimoniati appunto dalle rovine. Questo è ciò che esprime molto bene Salvatore Settis in un recentissimo testo per un libro fotografico[1], in cui puntualizza ulteriormente: “Fra la rovina (il frammento) e l’intero scatta una corrente di senso. Purché la rovina sia riconoscibile come resto di un intero lacerato, e porti con sé l’intenso pathos della distruzione. Solo i ruderi che rimandino a una condizione originaria carica di significato e di decoro meritano il nobile nome di rovine, e innescano il lavoro della memoria, la pietà della ricostruzione, l’intelligenza della riflessione storica. Sono queste e solo queste, vere “rovine” che segnalano un’assenza, ma al tempo stesso sono una presenza, un’intersezione fra il visibile e l’invisibile. La loro ostinata sopravvivenza testimonia l’eternità delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo. Memoria di quel che fummo, le rovine così intese ci dicono non tanto quel che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quello che per l’individuo sono le memorie d’infanzia: alimentano la vita adulta, innescano pensieri creativi, generano ipotesi sul futuro”. 

[1] ROTTAMI. WRECKAGE, 2017-2018 Giovanni Battista Maria Falcone. Fotografie con testi di Carlo Arturo Quintavalle e Salvatore Settis. FinArt Editore, Bagheria

L’idea del rinascere, del risorgere; viene di nuovo ribadito che nella storia tutto si rinnova, tenendo conto e sviluppando ciò che è accaduto precedentemente. Nell’affresco che stiamo osservando c’è un particolare molto interessante ed è sulla sinistra. Se osserviamo il palazzo nuovo, questo ha delle caratteristiche particolari e già ben conosciute, infatti ha tutte le peculiarità del Tempio classico greco: un alto zoccolo, delle lesene al posto delle colonne, ed un timpano con peducci e sculture. La lettura che immediatamente  viene suggerita, tenendo conto di quanto abbiamo già osservato in altre parti del Palazzo (lo zoccolo in mattoni della facciata) è che in questo conservare le antiche strutture e i principi classici per costruire i nuovi edifici, significa l’applicare i grandi insegnamenti del mondo classico per continuare al meglio la costruzione del futuro. Il passato come insegnamento, come lezione imprescindibile è una delle costanti del pensiero e dell’agire di Bartolomeo III. Le rovine segnano e predispongono al futuro, che sarà migliore, se sviluppiamo il bagaglio culturale del passato.

Il motivo del timpano lo ritroviamo, quasi volontariamente ribadito, nella complessa struttura della porta d’ingresso della Sala, che acquista profondità nel gioco prospettico e della luce, che su questa parete è frontale, con la maggiore larghezza della parte interna sinistra ma, in particolare della parte superiore, vista dal sotto in su.  Un’altra particolarità è che il quadraturista nel dipingere questa parte in rilievo della porta, la appoggia sui mascheroni dei pilastri, che non  sposta, e di cui non  cambia la dimensione, semplicemente accosta una parte sull’altra, come vediamo in altri due casi, e i mascheroni sembrano manifestare il loro disagio, il Villa è, come già detto, alquanto originale nelle sue soluzioni.