IL CRISTO MORTO DI MANTEGNA

IL CRISTO MORTO DI MANTEGNA

Corrado Mauri

La mia consuetudine col Cristo Morto di Mantegna è stata piuttosto intensa negli anni della mia formazione, non solo per l’interesse che questa straordinaria ed unica opera, per un verso, suscita in chiunque la osservi o abbia interesse per la Storia dell’Arte, ma per un costante contatto anche fisico. Quale studente del Liceo Artistico di Brera avevo l’ingresso gratuito in Pinacoteca, così presi l’abitudine di andare a studiare in galleria, nelle ore libere dalle lezioni, nella Sala dove c’era un divano ovale in velluto verde, sedendomi nella parte che aveva difronte questo capolavoro ed a fianco la Pietà di Giovanni Bellini, vicinanza di fatto, ma anche familiare tra i due artisti, avendo Mantegna sposato Nicolosia, sorella di Giovanni. Alternavo la lettura dei testi con delle pause riflessive in cui lo sguardo si fissava su queste opere, che divennero così compagne di colloqui silenziosi ma intensi e questo praticamente dal secondo anno di liceo sino al quarto, ma anche dopo, frequentando l’Accademia di Pittura. Spesso mi capitava di spiegare la forza e la bellezza di questi capolavori ai visitatori, in particolare quando li vedevo concentrati nel loro osservare od anche per la complicità dei custodi che mi invitavano a farlo, data la confidenza ormai acquisita con loro. Una delle constatazioni che facevo frequentemente era che molti dei visitatori esprimevano perplessità ed un senso di spiazzamento, difronte all’ assoluto realismo fisico del corpo del Cristo e che, inoltre, questo corpo esprimeva perentoriamente la realtà della morte, non offriva alternative. Prendevano atto che al di là dell’intenso dolore espresso dalle tre figure a lato di quel corpo, non c’era altro, la speranza nel futuro o nell’aldilà, per i cattolici, non era espressa. Non che fosse negata, ma nessun elemento nel dipinto portava all’apertura di un divenire prossimo. La modalità scelta da Mantegna di porci difronte ad un corpo morto, con la realtà dei suoi piedi puntualmente davanti a noi ed il corpo esattamente in asse con noi in uno scorcio preciso, proprio prospetticamente, è spiazzante. La nostra concezione di vita, oggi, ha rimosso il concetto della morte, lo ha accantonato, nonostante sia in assoluto una delle poche certezze della stessa vita. E quando ti ritrovi davanti a questo tema, in modo netto e chiaro, senza che ti offra alternative, ecco che le tue sicurezze vacillano e ti poni dei perché. In particolare, se questo tocca gli aspetti dell’essere religiosi o credenti, o meglio per ciò che noi riteniamo tali. Questa esperienza dei visitatori, non occasionale, ma che si ripeteva frequentemente, mi confermava quanto la funzione dell’Arte era determinante nell’aprire le proprie conoscenze grazie all’opera dei grandi artisti, che ti prospettano un modo diverso di vivere la Storia o la stessa realtà nelle loro opere rispetto alla tua normalità e modalità di guardarti attorno e cercare di capire. E quindi di come l’opera d’Arte deve essere prima di tutto attraente, deve svegliare la tua attenzione attraverso immagini che per il loro essere belle, proporzionate ed armoniose, costruite secondo canoni di realismo condivisibile, comunichino pensieri ed idee, suggerendo aspetti nuovi e diversi. Come nell’ambito religioso, intimo e personale, che la maggioranza delle opere d’Arte, almeno sino all’Ottocento, raffigurano. E constatavo che, negli spettatori attenti, la conflittualità nasceva dal fatto di essere attratti da un dipinto bello, in cui tutto è realizzato puntualmente con grande capacità di disegno, con una pittura coloristicamente scarna ma concreta nella sua ambientazione, in cui non riuscivano a trovare dei difetti e quindi vera. Questo li spiazzava nella loro certezza del Cristo che è Dio, che è la Trinità ed è legato al concetto di eternità, mentre lì Gesù davanti a loro era un uomo incontestabilmente morto. Mantegna ci dice questo senza nessuna mediazione, fissa un preciso momento, che è determinante e fondamentale, ne devi prendere atto per capire cosa, dopo questa realtà, avverrà nella storia. Proprio qui sta la straordinarietà della scelta di Mantegna, concentrarsi e scegliere questo momento di una dimensione unicamente umana e in tal senso non abbiamo precedenti nella Storia dell’Arte.

Certamente abbiamo una serie infinita di crocefissioni dove il Cristo è morto sulla croce, anche se una buona parte lo raffigura prima del momento culmine del morire. Diamo un’occhiata a quella che Mantegna dipinge nella predella della Pala di S. Zeno a Verona. Siamo negli anni dal 1457 al 1459, Mantegna non ha ancora compiuto i trent’anni, ma è già pienamente nel superamento della sua prima maturità e contribuisce, in maniera determinante, al rinnovamento del clima artistico nell’Italia settentrionale, ancora legato agli stilemi gotici.  La scena è costruita con un disegno sicuro, che descrive ogni minimo particolare dal sassolino o i teschi a sinistra nel primo piano, alle mura e torri della Gerusalemme sul fondo, non meno disegnate le stesse nuvole nel cielo. Il Cristo è già morto, solo la testa è inclinata, il resto del corpo è perfettamente in asse con la croce, si identifica cioè con questa, diventandone simbolo, tant’è che è l’unica figura isolata dalla moltitudine dei presenti e che si staglia da sola nel cielo, proprio dalla punta dei piedi, i due ladroni (visti di tre quarti) no, dalle ginocchia in giù rientrano nel paesaggio. E con loro Mantegna usa la luce simbolicamente, avendola impostata con questa finalità, il buon ladrone alla destra di Gesù è illuminato in pieno dalla luce e dalle ginocchia in su è nel cielo, come Gesù. Nel Vangelo di Luca, questi gli dice di ricordarsi di lui quando sarà nel suo regno e Gesù gli risponde: “In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso”. L’altro ladrone è in ombra e vicinissimo alle rocce, anche queste sempre in ombra, costituendo un insieme, il ladrone rimane nell’ambito terreno, non in paradiso. Ecco come il grande artista usa gli strumenti della pittura per raccontarci la storia caratterizzandone i suoi significati e simbologie.

In che modo, dunque, Mantegna ci racconta il corpo morto di Cristo? Prima di tutto fa una scelta che potremmo definire quasi architettonica, vede il corpo come una forma geometrica e la pone prospetticamente difronte al visitatore in verticale, non lateralmente come verrebbe più spontaneo, siamo come ai piedi di un letto e l’asse verticale che attraversa il corpo viene verso di noi, suddividendolo esattamente a metà. Mantegna usa la geometria per creare la sua visione, che diventa misura e proporzione. Applica le regole della prospettiva su di un corpo, ma è attento e intelligente, così interviene alterando le regole. Se dovessimo fotografare un corpo in questa posizione, l’effetto sarebbe che: avremmo dei piedi grandi, che riempirebbero il primo piano ed una testa piccola, con un risultato decisamente brutto.

Basta osservare le due foto, eseguite a modo esplicativo, una con obbiettivo normale in cui osserviamo la grande dimensione dei piedi e la testa piccola, l’altra scattata a maggior distanza, ma con un teleobbiettivo che concentra gli spazi e l’effetto è ben diverso. Che è quello che fa il Mantegna, privo di conoscenze ottiche: rimpicciolisce la proporzione dei piedi ed ingrandisce la testa, riportando l’insieme in una equilibrata proporzionalità e concentrando l’immagine.

Ma a costruire il risultato di straordinario realismo partecipano altri particolari. Elemento determinante è che il Cristo è posto su di una lastra di marmo, quella dell’unzione, infatti a destra, accanto al cuscino, è posto il vasetto degli unguenti, unico oggetto presente. Sempre per dare meno rilevanza ai piedi e mantenere il giusto equilibrio tra le parti, vediamo che questi sporgono dalla lastra e di conseguenza scendono ulteriormente e presentano un disegno che descrive ogni minimo particolare delle dita, delle varie pieghe delle piante, con una diversa inclinazione per ogni piede onde creare quelle minime ed opportune diversità. A questo proposito qualche storico dell’Arte sostiene che tale diversità è dovuta al fatto che, nella Crocefissione, il piede destro, il cui arcuarsi è più accentuato, era sovrapposto a quello sinistro e quindi nel rigor mortis, la deformazione si è mantenuta. Una lettura eccessiva? Non direi, vista la particolare puntigliosità di Mantegna nel descrivere ogni minimo particolare, che non è mai gratuito ed è sempre motivato.

Ne abbiamo un’altra dimostrazione nella attenta descrizione delle ferite provocate dai chiodi nei piedi e nelle mani ed anche, se osserviamo attentamente sotto il pettorale destro, quella del colpo di lancia nel costato. Non viene tralasciato nulla, come non vi è alcuna traccia o macchia di sangue, neanche all’interno delle ferite, siamo difronte alla morte ed il sangue è vita e quindi eliminato. Il corpo è deposto su una lastra di marmo, ben visibili le varie venature, questo determina una particolare accentuazione del petto, che non sprofondando come quando è in un letto morbido, viene spinto verso l’alto e qui abbiamo un’altra straordinaria attenzione anatomica di Mantegna. Osserviamo la particolare inclinazione delle due braccia e dell’omero che non si innestano diritte nella spalla, come potete osservare nella foto di prova col teleobbiettivo, ma sono più inclinate verso l’interno. L’ipotesi è che nel momento della morte sulla croce, venendo meno la tensione muscolare, il peso del corpo, quantomeno robusto di Gesù, abbia disinnestato l’articolazione omero-spalla.

Nelle mani, ove notiamo la realistica stratificazione delle piaghe sino al foro scuro creato dal chiodo, il lieve movimento delle dita, mignolo e indice, in questo contesto di assoluto rigore, danno una sensazione di naturalezza. Ovviamente Mantegna si guarda bene dal non porre in risalto la natura umana di Gesù e quindi  evidenzia sotto il sudario i suoi organi genitali. Il sudario è anche elemento funzionale nel continuo gioco delle pieghe a sottolineare la luce, che dalla maggiore intensità a destra, man mano va perdendo di intensità, mentre si intensificano le ombre, con il controcanto della punta illuminata nella parte a sinistra in basso, ma anche con una lieve variazione tonale nel braccio in ombra che assume una intonazione sul verde.

Osserviamo il volto in uno scorcio molto accentuato, ma estremamente regolare, le palpebre chiuse ben rimarcate dalla luce nella loro parte alta, ripresa nella linea degli zigomi, il naso perfettamente dal sotto in su con le due narici e le relative ombre perfettamente calibrate e non piatte. Le labbra, impercettibilmente aperte, seguono una linea che non esprime alcuna particolare espressione, il labbro  superiore ha una serie di lievi tocchi luminosi come a rendere l’effetto di labbra secche, a rammentarci la spugna con l’aceto. La barba e i baffi non sono pieni, solamente i due riccioli a cono sul mento danno questa sensazione, ma ben pettinati e questo è un vezzo e una caratteristica particolare del Mantegna, lo vedremo più avanti. Altrettanto composti i capelli, pur nella scioltezza dei riccioli. Un lievissimo accenno di trasparenza luminosa suggerisce più che mostrare l’aureola. Molto attento anche il disegno della seta del cuscino, a dare il senso della stoffa, anche questa della stessa tonalità del marmo, onde evitare troppi colori.

  • Accanto al corpo sulla sinistra sono raffigurate tre figure, immediato il riconoscere la Madre di Gesù piangente mentre con un fazzoletto si asciuga le lacrime ben evidenti su un viso segnato da parecchie rughe e dalla smorfia dolorosa delle labbra semiaperte. Di fianco, senza dubbio, dovrebbe essere S. Giovanni, anche lui in lacrime e con le rughe accentuate dal pianto, mentre si stringe le mani contrito dal dolore. Poi abbiamo più indietro un volto a metà, di cui vediamo solamente il naso e la bocca aperta, che urla il proprio strazio. Anche qui l’ipotesi più plausibile è che si tratti della Maddalena, che è tra le figure costantemente presenti in ogni momento della Passione e che svolge il ruolo di presenza dolorosa, come a rappresentare tutti i cristiani. Osservandoli attentamente, sul piano della spazialità si percepisce meno il senso di profondità e volume che, invece, riscontriamo nel corpo del Cristo. Sono molto addossati l’uno all’altra, tanto più che dall’altra parte si apre uno spazio profondo, sottolineato dal disegno prospettico delle mattonelle del pavimento, dal pannello di stoffa (di cui si vede qualche disegno decorativo) che sta dietro alla pietra dell’unzione e infine da una parete.

La presenza dei tre astanti ha fatto pensare ad una aggiunta successiva di Mantegna, allo scopo di rimarcare il dolore per lo stacco, la separazione definitiva che la morte determina. Qualcuno ha azzardato che addirittura non si tratta della mano del Mantegna, ma di qualche altro pittore, ipotesi che non mi trova assolutamente concorde.

Il dipinto è altrettanto importante sul piano tecnico in quanto Mantegna dipinge su una tela, cosa decisamente rara all’epoca, alquanto sottile e con una tempera a colla, lo strato della pellicola pittorica è molto sottile, infatti anche nei punti di maggior spessore traspare la trama del supporto. Parecchi i punti in cui, oggi, la tela rimane scoperta e priva di colore, pur non compromettendo la lettura del dipinto. La tecnica a colla mantiene inoltre opaca la superfice pittorica, contribuendo a quel senso di essenzialità dell’insieme.

Questo capolavoro è stato trovato nello studio dell’artista alla sua morte, nel 1506, dal figlio Ludovico e ciò costituisce quel dato storico che ci supporta nel ritenere che questo “Cristo in scurto”, come lo definisce Ludovico nell’offrirlo in vendita al marchese Francesco Gonzaga[1], sia un soggetto che Mantegna ha dipinto per sé stesso, senza alcun committente e ciò risulta dalla totale mancanza di documentazione in merito.  Questo spiegherebbe ulteriormente la libertà e novità della sua iconografia, non dovendo rispettare le esigenze o richieste della committenza, anche se nella sua produzione precedente abbiamo delle chiare anticipazioni.  Vediamo, in breve, attraverso quali tappe Mantegna giunge a concepire il Cristo morto.

Andrea Mantegna nasce a Isola di Carturo, nei pressi di Padova, nel 1431. Giovanissimo (1442) entra nella bottega di Francesco Squarcione come suo “figlioccio” e lo segue nei suoi viaggi, ad esempio a Venezia nel 1445, ma già nel 1448 a diciassette anni si “emancipa”, diventa completamente autonomo ed inizia a dipingere nella Cappella degli Ovetari nella Chiesa degli Eremitani a Padova sino al 1457. Ma per la morte di Giovanni d’Alemagna e di Andrea Pizzolo e la defezione di Antonio Vivarini, dal 1453 rimane da solo a terminare i cicli di affreschi: nell’abside l’Assunzione della Madonna, poi S. Giacomo davanti ad Erode, il miracolo dello storpio e il martirio di S. Giacomo e i due episodi del martirio e del trasporto del corpo di S. Cristoforo. In questi affreschi, purtroppo persi nei bombardamenti del 1944, ma ben conosciuti grazie a fotografie e copie (con recenti tentativi di recupero dei lacerti superstiti), sono già espresse tutte le caratteristiche del suo stile. Nel miracolo dello storpio di cui vediamo una fotografia ottocentesca, è rilevante la parte di spazio che Mantegna riserva alle architetture, che non sono solamente sfondo delle scene ma hanno una proporzione realistica nei confronti dei personaggi. Inoltre, egli accentua la particolare visione dal sotto in su, come era quella dello spettatore che osservava gli affreschi. Un altro particolare importante  è il tallone del piede del soldato che sporge dalla scena, che va a coinvolgere, appunto, lo spazio dello spettatore. Per Mantegna è fondamentale costruire puntualmente lo spazio in cui si svolgono gli avvenimenti. Nell’immagine successiva vediamo l’affresco, nelle condizioni attuali molto compromesse, del martirio e del trasporto del corpo di S. Cristoforo, che possiamo osservare meglio

in una copia dell’affresco eseguita a fine Ottocento, dove l’uso di una prospettiva centrale permette a Mantegna di mantenere la stessa scena per momenti temporali diversi. A sinistra S. Cristoforo legato alla cornice, prima del martirio, mentre a destra è inscenato il trasporto del suo corpo, dove possiamo vedere per la prima volta la realizzazione di un corpo in scorcio. Ma ci sorprende l’uso che Mantegna fa della cornice che diventa parte della stessa narrazione e contemporaneamente strumento di collegamento con noi che osserviamo il racconto. Infatti, S. Cristoforo è legato alla cornice in attesa del martirio, a destra un bambino vi si appoggia inorridito dalla visione della testa decapitata del Santo e posta in un piatto, ma al centro abbiamo la colonna, che sostiene la stessa cornice e viene al di qua, nel nostro spazio, con la voluta ed il putto in cima. Mantegna tiene conto di noi osservatori e ci coinvolge, che è la finalità del “Cristo Morto”. Non posso non riportare una particolare citazione di quel fine osservatore che era J. W. Goethe che nel “Viaggio in Italia” del 1786 scrive: Nella chiesa degli Eremitani ho visto gli affreschi d’un più antico maestro, il Mantegna, e ne sono rimasto sbalordito. Che incisiva, sicura concretezza in quei dipinti! Di questo realismo tutto autentico, non incline alle illusioni e agli effetti menzogneri, né rivolto alla sola capacità di immaginazione, ma al contrario aspro, netto, luminoso, minuto, consapevole, delicato, definito, e che ha insieme qualcosa di severo, di scrupoloso, di faticato, hanno preso l’avvio, come potei constatare nei dipinti del Tiziano, i pittori successivi. Così l’arte, dopo le epoche barbariche, raggiunge il suo pieno sviluppo”.     Costantemente Mantegna usa lo stratagemma della cornice, già in uno dei suoi primi dipinti, del 1449 circa, il “S. Andrea” che sta al di là dell’arco, vi pone dentro il braccio e arriva a sporgerlo al di qua, come fa anche il libro, ma altrettanto riscontriamo nella “Presentazione al Tempio” dove la Madonna appoggia il gomito sulla cornice in marmo della scena, dove poi c’è il cuscino su cui sta la piccola mummia di Gesù bambino. In questa opera, anche questa già su tela come il “Cristo morto”, mi è particolarmente simpatico il S. Giuseppe, solitamente tranquillo e qui nel pieno del suo ruolo di padre putativo, che controlla con sguardo truce il sacerdote che sta prendendo il piccolo Gesù. Ai lati, a filo della cornice, abbiamo a destra l’autoritratto di Mantegna ancor giovane, siamo nel 1454-5 circa e dunque sui 23 anni, ed a sinistra il ritratto della giovane moglie Nicolosia.

Un altro particolare che è impossibile ignorare è la raffinata attenzione del pittore per la resa delle stoffe e di come il loro disegno segue le singole pieghe, come pure i riflessi luminosi a seconda dell’incidenza della luce e il suo variare. L’attenzione ad ogni minimo dettaglio è per Mantegna una costante a qualsiasi livello, non ci sono differenze di importanza, lo vediamo in queste stoffe o nel disegno pelo per pelo della barba del sacerdote o, ritornando alla Crocefissione che abbiamo visto prima, nel particolare delle suole bucate delle scarpe del soldato che ai dadi si gioca la tunica di Gesù. Nei ritratti non è da meno nella puntigliosa descrizione di ogni ruga o segno, di ogni capello o dei due occhi azzurri di questo “Uomo in veste di Protonotario apostolico”, che forse è Carlo de’ Medici del 1466, in cui non concede nulla ad un possibile abbellimento del soggetto o alla severa freddezza dello sguardo, mentre si concede la straordinaria bellezza delle ombre colorate rosse sul rosso del mantello: si era guardato bene Giotto agli Scrovegni. Ma soprattutto la eccezionale novità è il ritrarre il personaggio non più di profilo come d’uso, ma di tre quarti nel volto e nelle spalle, alla fiamminga, come negli stessi anni proponeva Antonello da Messina. 

[1] per la storia dettagliata del dipinto dopo il 1506 rimando alla Scheda di Mauro Lucco nel catalogo della mostra “Mantegna a Mantova. 1460-1506”, alle Fruttiere di Palazzo Te a Mantova, Ed. Skira, 2006


Dobbiamo tener conto di due elementi fondamentali e determinanti nella formazione del suo linguaggio artistico: prima di tutto il clima culturale di Padova legato alla importantissima presenza di una Università, fondata nel 1222 e che dal Quattrocento in poi gode di libertà ed indipendenza grazie alla Repubblica di Venezia, tanto che adotta il motto: “Universa Universis Patavina Libertas”. Questa specificità infonde nel Mantegna un grande amore per il mondo classico, come abbiamo visto, tant’è che compie studi sulla scrittura degli antichi e apporta delle novità nel denso clima degli “studia humanitatis” individuando specifiche qualità decorative dell’alfabeto classico, che riporterà poi costantemente nelle sue opere, in cui ritroveremo sempre il suo vero e proprio amore per l’Archeologia classica ed il senso della Storia che contiene passato e presente. Il secondo elemento è la presenza a Padova di Donatello, dal 1443 al 1454, dove opera nella Basilica di S. Antonio ed al Monumento al Gattamelata, dei pittori Paolo Uccello e Filippo Lippi e di Andrea del Castagno che esegue affreschi in S. Marco a Venezia. Grazie a loro acquisisce le fondamentali novità del Rinascimento toscano, in primis la prospettiva, ma la sua vivace intelligenza gli permette di rielaborare queste novità trasformandole in un linguaggio assolutamente individuale ed unico.  

Qui abbiamo l’affresco di Andrea del Castagno in S. Marco a Venezia con la Visitazione della Vergine ad Elisabetta e con  la Morte della Vergine. È evidente il grande spazio dato all’architettura che domina la scena a cui le figure si rapportano in proporzione e che abbiamo riscontrato identico negli affreschi degli Eremitani.

Nei due bassorilievi di Donatello per l’Altare del Santo è evidente la grande lezione prospettica nel pannello del “Miracolo della mula” che prosegue anche nel fondo al di là della grata dopo le volte, come la salda costruzione anatomica del busto nel “Cristo in Pietà con i due angioletti” reggi cortina profondamente angosciati. Ma Mantegna, oltre a ciò, nell’altare ha osservato con attenzione l’uso dell’oro quale elemento decorativo con valenze quasi pittoriche, che alleggerisce la monocromia del bronzo, nonché, anche quei quattro tondi circoscritti in un altro cerchio sopra gli angioletti o, nel paliotto dell’altare del “Miracolo della mula”, una serie di altri tondi dorati, dei quali si ricorderà e che troveremo nella Camera Picta (degli Sposi) a Mantova, nel basamento della Scena dell’Incontro o nella parete che separa dal giardino il gruppo della famiglia Gonzaga.

Sempre di Donatello terrà conto della stessa struttura d’insieme dell’altare del Santo, che purtroppo è stata distrutta (ma esistono delle ipotesi ricostruttive, una tra le più probabili la vediamo nel disegno), quando realizzerà la Pala di S. Zeno a Verona, che dipinge mentre sta ancora a Padova. Invece e fortunatamente la cornice della Pala è ancora quella originale e possiamo constatare quanto questa rientra ed è parte essenziale dell’insieme, infatti le colonne si addossano ai pilastri dipinti, legando pittura e scultura e non a caso abbiamo le quattro sculture delle virtù alla base.

Qui sono ormai pienamente espresse tutte le caratteristiche dell’Arte del Mantegna: la resa dei volumi è sempre circoscritta da un disegno preciso e puntuale, l’attenzione che Mantegna riserva alla Madonna o ai santi è identica anche per il trono, i festoni e i bassorilievi classici. Crea uno spazio “classico”, su misura dove i santi sono come delle sculture, impegnati nell’attività della lettura, ognuno infatti ha in mano un libro, anche i disinvolti angioletti che cantano. Straordinario il S. Giovanni Battista intellettuale, qui più consono alle biblioteche che al deserto. Il clima culturale per la presenza dell’Università è costante e si manifesta ampiamente.    

Non si può non accostare a questo S. Giovanni Battista, due degni colleghi di letture come il S. Benedetto, dalla splendida barba e la severa S. Felicita, entrambi dal primo “Polittico di S. Luca” che Mantegna esegue nel 1453-4 per l’Abbazia benedettina di S. Giustina a Padova, in contemporanea agli affreschi della Cappella Ovetari agli Eremitani.   

Che dire poi della Madonna, giovane imperatrice romana, seduta su un trono con tanto di aureola anche archeologica, ripresa poi sotto il tappeto, con tondi mitologici e bassorilievi con putti che reggono festoni di marmo che si trasformano sopra il trono in vera natura con ciliegie, nocciole, lamponi, limoni e pesche. Notevole la predella della Pala con gli episodi della Preghiera nell’orto, la Crocefissione, che abbiamo già visto e la Resurrezione. Ma in particolare ci interessa la Preghiera nell’orto con le posizioni degli apostoli.

Anche qui non tralascia nulla, dal primo piano sino al punto più lontano descrive puntigliosamente ogni particolare che si inventa e sono più che convinto, con grande piacere. I sassolini e fili d’erba, le piante con i frutti o l’altra straordinaria pianta quasi spezzata in due, sul cui ultimo ramo improvvisamente e rigogliosamente spuntano foglie e grappoli d’uva, anche se nessun suo ramo va a coprire la panoramica della città, altrimenti come potrebbe divertirsi ad inventare mura diroccate all’inizio, altre mura successive in cui sono regolarmente distanziate delle torri, case, un edificio circolare con cupola al cui vertice c’è una pigna dorata simbolo di eternità o il castello, più in alto, dove sulla cuspide della torre c’è invece una mezza luna? Con particolare cura sono rappresentati anche i soldati che, con Giuda come guida, stanno arrivando a catturare Gesù, in preghiera su una roccia, assistito da un angelo che sbuca da una nuvola concreta come le sue vesti. E le rocce, altra straordinaria invenzione, che realizza e colora (grigie, ocra, marroni, rosse o viola) a seconda di come compone il paesaggio, non mancano su di un precario ponticello, un coniglio e altri due spersi nei cespugli della collina più avanti. Ma guardiamo gli apostoli addormentati: due sono in scorcio ed uno a pancia in giù. Ma questa ricerca di scorci particolari la ritroviamo, anche, in un’altra tavola di cm 63 x 80 dipinta a tempera e con l’iscrizione OPUS ANDREAE MANTEGNA, sempre con lo stesso soggetto ma antecedente. Se quella appena analizzata fu eseguita intorno al 1458-9, quella che si trova ora alla Galleria Nazionale di Londra risale circa al 1455 e vi ritroviamo quasi la stessa descrizione di ogni particolare seppur di poco più essenziale.

Invece dell’angelo, su di una nuvola, abbiamo cinque putti, a dire il vero più classici che non angioletti, che, come annuncio presago, mostrano a Gesù inginocchiato i simboli della Passione. Dietro Gesù la Gerusalemme con mura, in parte ricostruite, torri, anche qui con la mezzaluna, e campanili. Non mancano un anfiteatro e una specie di colonna Traiana con monumento equestre in cima. Sotto la città, i soldati che si apprestano alla cattura guidati da Giuda e non mancano sulla strada dei conigli che ritroviamo anche accanto alla roccia che è di fronte a Gesù. Sotto le sue ginocchia è decisamente interessante la roccia che pare assumere delle strane pieghe come se si stesse trasformando in un tessuto. La fantasia di Mantegna è in continuo fermento ed attività, così crea due piccolissimi pellicani nel ruscelletto che costeggia la strada, appena prima di un mezzo tronco appoggiato che serve da precario passaggio all’altra sponda dove ritroviamo il consueto albero rinsecchito, con un solo ramo ancora vivo da cui sono spuntate delle foglie; sulla cima di un altro ramo morto un avvoltoio, quale presagio, anche lui, di morte. Ma sono gli apostoli addormentati l’oggetto del nostro interesse, quali anticipazioni dello scorcio del “Cristo in scurto”, in particolare quello col manto color ciclamino chiaro inclinato, ma non ancora in verticale rispetto allo spettatore. Un disegno conservato a Londra riporta, sul recto, tre studi di figure sdraiate e proprio due si direbbero decisamente in funzione degli apostoli di questa Orazione. L’apostolo in basso, con tanto di aureola, è di poco visto più dall’alto, ma nella stessa inclinazione rispetto a quello dipinto ed ovviamente nudo, come consuetudine negli studi per il controllo dell’anatomia. Nel secondo uomo sdraiato è interessante nel volto lo studio con brevi cenni delle ombre dell’occhio, del naso, della bocca aperta e del mento, ma significative le mani che non sono rilassate dal sonno, ma sembra vogliano aggredire o grattare il terreno, rivelando una tensione emotiva. Nel verso del foglio ci sono due figure femminili, sempre con aureola, una seduta in terra e con le gambe in avanti in scorcio e una in ginocchio che non si capisce bene cosa abbia nelle mani, forse un fazzoletto, ricordiamo la Madonna che si asciuga le lacrime.

Un altro disegno sul recto ha un “Compianto sul Cristo morto” e sul verso una “Pietà”, a cui è stata assegnata una datazione approssimativa intorno al 1460. Riprende il disegno precedente ed era assegnato a Giovanni Bellini. In occasione della mostra sul Mantegna a Londra (poi a New York) del 1992 è stato attribuito al Mantegna dal prof. D. Ekserdjian dopo un puntuale confronto con un altro disegno con “Deposizione nel sepolcro” della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, di confermata autografia. Nel compianto il rapporto col “Cristo morto” di Brera è più evidente sia per lo scorcio più accentuato sia per il fatto che il corpo è sdraiato su una probabile pietra di unzione, ma ricoperta da una stoffa, sia perché i piedi sono al di fuori della lastra e le dita della mano piegate all’interno.

Decisamente intrigante l’altra figura davanti, in scorcio ma rovesciata, come a volerne studiare l’effetto cambiando il punto di vista. Il corpo in solitudine accentua maggiormente la drammaticità della morte. Dramma che si manifesta nella Pietà dove la madre solleva il braccio del figlio morto per avere conferma fisica del braccio che ineluttabilmente cadrà, privo di vita. La presenza delle tre Marie rientra più nella normalità del soggetto del Compianto, ma probabilmente la sintesi formale del nostro dipinto era in fase di ideazione e i due punti di vista ne sono la chiara dimostrazione. In tal senso il confronto col disegno di Brescia, dove le tre Marie depongono il corpo nel sepolcro, probabilmente antecedente, ci può suggerire il possibile percorso creativo. I soggetti che prevedono la presenza del corpo di Gesù morto sono: la Deposizione dalla croce, il Compianto o l’Unzione, la Pietà e la Deposizione nel sepolcro. Affrontando queste composizioni in cui il corpo è in prevalenza sdraiato, può essere sorta l’idea di concentrarsi  sulla sola presenza del corpo e trovare la più efficace posizione per avere l’effetto più drammatico e coinvolgente, come in realtà poi avviene.

Ma un altro disegno è ancora più intrigante per il nostro dipinto, si tratta di “Uomo giacente su una lastra” delle collezioni del British Museum di Londra, nel quale le corrispondenze sono parecchie se non fosse che l’uomo, anche lui nudo e coperto da un sudario, si sta sdraiando oppure si solleva da una lastra a spigoli vivi, praticamente identica a quella dell’Unzione. Personalmente ritengo che si stia sdraiando in quanto la mano sinistra è rilassata e non compie alcuna azione, mentre la destra è piegata all’interno anche lei senza sforzo, se si stesse sollevando il palmo appoggerebbe con forza sulla lastra per agire e spingersi in alto. A conferma il volto è già inclinato, come il “Cristo in scurto”, con la bocca già aperta e abbandonata al sonno e gli occhi già socchiusi. Il piede destro è già oltre il bordo della lastra, indubbiamente si tratta di uno studio inerente al soggetto in esame, nessun riferimento per stabilire una datazione prima o dopo, ma la lastra lo fa considerare se non contemporaneo, almeno molto vicino.  Anche nelle sue straordinarie Incisioni Mantegna affronta questi soggetti, ma diversamente dai disegni che sono in effetti il vero momento creativo e quindi presentano sempre una immediatezza particolare, come ad inseguire il fiume di idee che scorre e fissare immediatamente quell’attimo speciale, l’incisione è opera definitiva come il dipinto.

Qui abbiamo il “Seppellimento di Cristo”, ora alla Galleria Nazionale di Washington e datato approssimativamente attorno agli anni 1470-75 circa, dove le qualità compositive e pittoriche sono spinte al massimo, tanto che non sentiamo la mancanza dei colori. Alla sinistra il gruppo che sostiene il corpo di Gesù con Nicodemo, la Maddalena urlante con le braccia aperte, (immediato il pensare alla Maddalena della Crocefissione di Masaccio, ma dove è vista di schiena) una delle tre Marie e un probabile apostolo piangente, è inserito in un triangolo col vertice in basso e perfettamente contenuto nella parte della grande roccia alle loro spalle che ha la loro stessa luminosità e li incorpora come fossero un blocco unico. Fa da contrappunto la figura di Giuseppe d’Arimatea che tiene il lenzuolo dalla parte dei piedi e si staglia sul buio della grotta e sulla roccia completamente in ombra e qui vediamo cosa vuol dire saper calibrare perfettamente ombre e luci, la sensazione che abbiamo è che il mantello di Giuseppe sia più luminoso rispetto al gruppo che abbiamo appena esaminato, che però riceve la stessa identica luce. Teniamo conto che i bianchi nell’incisione sono determinati dal bianco stesso del foglio e perciò sono uguali in tutte le parti che non siano coperte dai segni incisori, perciò è l’effetto di contrasto tra le parti più scure e quelle più chiare che determina questa sensazione di differenza. Molto importante anche la lastra del sepolcro con la scritta in caratteri classici romani e giustamente con un tono più spento, che ha una funzione di sensibile pausa nei giochi dei chiaroscuri. Più a destra, separate dall’ombra della roccia che arriva sino in basso, la Madonna sorretta e confortata da due pie donne, accanto la dominante figura di S. Giovanni, che riprende gli stessi chiaroscuri di Giuseppe d’Arimatea, all’altezza della sua testa le tre croci in cima alla collina del Calvario, che si stagliano simbolicamente nel cielo e da cui la strada a spirale scende oltre le spalle di Giovanni, bilanciando le linee discendenti delle rocce a sinistra.  

Anche in un’altra incisione, sempre con lo stesso soggetto del Seppellimento e datazione, riscontriamo la stessa attenzione ed uso della composizione con andamento, però, verticale. Sempre la montagna rocciosa, la caverna e le quattro figure dei seppellitori che si curvano sul corpo racchiudendosi in un’ellisse, davanti al sepolcro, posto in orizzontale, la Madonna svenuta, le due Marie e difronte a tutti il S. Giovanni di schiena, su cui stanno in lontananza le tre croci. Due alberi sottolineano la verticalità, un aspetto mi colpisce: tutta la scena si svolge davanti alla caverna e su un piano di roccia rettangolare, come quasi appositamente ritagliato con dei gradini a sinistra, una forma che mi riporta all’idea della pietra dell’unzione. Un altro suggerimento e stimolo a sviluppare un concetto che nel tempo si farà sempre più concreto ed essenziale: la pietra dell’Unzione.

In Mantegna è abbastanza costante il riutilizzo di elementi che si sono sviluppati nella sua prima maturità: le cornici, le archeologie classiche, il particolare uso della prospettiva che lo conduce anche a invenzioni che saranno in seguito oggetto di molta attenzione. L’esempio più eclatante è nel famoso oculo nella volta della Camera Picta a Mantova, dove al centro di un repertorio classico sviluppato sulle vele con gli imperatori romani e nelle lunette, inventa quella straordinaria soluzione di un cilindro prospettico visto dal basso che si apre sul cielo azzurro con figure.

Intorno all’oculo un giro di festoni con frutta non poteva mancare e, all’interno, degli angioletti acrobati, visti, tanto per cambiare, in “scurto” ed altri che infilano la testolina nei fori della balaustra. Volti di fanciulle, di cui una è nera, si affacciano dall’alto accanto a un pavone ed un grosso tino con piante appoggiato su un bastone in equilibrio piuttosto precario. In questa Camera la compenetrazione tra l’antico ed il moderno non ha tregua, in una lesena dipinta sulla parete che sostiene la volta, il Mantegna si fa un autoritratto, inserendosi così in un contesto classico ed in ottima ed illustre compagnia. 

A Mantova Mantegna si trasferisce nel 1460 chiamato dal marchese Ludovico Gonzaga come pittore di corte e riceve come primo incarico quello di decorare la cappella nel castello di S. Giorgio, residenza del marchese, ma anche quello di responsabile delle sue preziose raccolte e collezioni. Nella cappelletta progetta l’intera decorazione dell’ambiente, realizzando un dipinto su tavola con “I funerali della Vergine” in cui gli apostoli attorniano il letto ove è distesa la Vergine per il rito funebre. Siamo in una specie di portico a pilastri, decorati con i soliti motivi classici, che sul fondo ha una grande apertura. Ciò che sorprende è lo straordinario paesaggio che ci si offre alle spalle della scena rituale, una incredibile e realistica veduta del lago di Mantova con il ponte coperto di S. Giorgio, che separa il lago di Mezzo da quello Inferiore e la parte di città sull’altra sponda. È una veduta luminosissima ed atmosferica, ma soprattutto incredibilmente realistica, inusuale per quello che il Mantegna ci ha abituato ad osservare nella sua scrupolosissima e minuziosa descrizione di ogni singolo elemento della realtà. Un Mantegna che diremmo nostro contemporaneo per la sensibilità nei passaggi luminosi, anche nelle stesse nuvole che si sono come rilassate, hanno perso la loro tensione che le fissa immobili nel cielo, ma questo resterà un unicum nella sua produzione.

In un’altra figura di santo, il S. Sebastiano, più volte raffigurato, ritroviamo gli elementi che caratterizzano l’Arte del Mantegna. Il primo, quello di Vienna del 1456-58 circa, il secondo del Louvre del 1480-85. Il repertorio archeologico è praticamente identico, pur negli oltre vent’anni che separano i due dipinti, un esempio il piede scultura accanto a quelli del santo. Nel S. Sebastiano del Louvre riscontriamo una modellazione più sensibile alla luce, che rende un po’ meno scultura il corpo. In entrambi sono presenti gli arcieri che si allontanano sulla strada dopo il loro misfatto o in basso in primo piano con le loro becere espressioni. Particolare la città distribuita sulle rocce nel secondo, costante la presenza delle nuvole (non quelle lacustri e mantovane appena viste), quasi sempre a cirro, come in tutta la sua pittura, ma nel dipinto di Vienna in alto è chiaramente visibile un cavaliere nella nuvola, anche altrove è possibile individuare degli accenni a dei volti. Sempre qui, Mantegna si firma nella scritta in verticale accanto al corpo del santo con caratteri greci, non vengono mai meno i motivi per reinventare le sue archeologie anche con le calligrafie.

Nel “Cristo in Pietà sorretto da due angeli”, al Museo di Copenaghen, databile alla fine degli anni novanta, viene trattato il tema del Cristo morto in Pietà con le braccia e le mani aperte a mostrare le piaghe onde sollecitare la commozione del fedele, una iconografia di tradizione dal trecento in poi, ma solitamente a mezzo busto. Le dimensioni sono normali, 78 x 48 cm, quindi probabile dipinto di devozione privata e purtroppo privo di qualsiasi documentazione sino al 1756, sconosciuto quindi il committente. Come consuetudine, Mantegna rielabora la tradizione e si inventa una figura intera, quasi seduta su uno straordinario sarcofago con volute, in porfido con borchie dorate e con la sua firma in basso sul fronte del ripiano, in caratteri dorati e ovviamente classici ed in latino, sul quale Gesù poggia un piede mentre l’altro è direttamente sulla roccia. A sostenere il corpo sono un serafino in rosso ed un cherubino in azzurro, entrambi inginocchiati sul sarcofago e dalle espressioni di intensa e dolorosa commozione. Un aspetto mi lascia perplesso nel dipinto e su cui ho notato che gli storici dell’arte sorvolano: il volto e il collo del Cristo hanno una luminosità ridotta rispetto allo splendore del busto o degli angeli, come se volutamente si volesse mantenere l’espressione supplichevole di Gesù in sordina. Non si ha notizia di incauti interventi di restauro, perciò la scelta rimane un mistero. Il tutto è inserito in un paesaggio, raccontato nel momento dell’alba con personaggi già in attività: pastori col gregge, viandanti sulla strada e operai al lavoro in una cava mentre rifiniscono una colonna ed uno scultore al lavoro su una statua, contesto che ritroviamo, quasi identico, anche nella “Madonna delle cave”. Un insieme di particolari che confortano il fedele, non lo spiazzano, ma anzi lo rassicurano. Possiamo accostare a questo dipinto un disegno, delle Gallerie dell’Accademia di Venezia con lo studio per una Pietà, per la identica imponenza del busto di Gesù, ma qui invece degli angeli abbiamo le tre Marie, le cui mani, che sostengono il corpo, mostrano una espressività maggiore che nei volti. Ecco che il manifestare un sentimento prende il sopravvento e si esprime con forza. Questo accade con maggior frequenza nella sua piena maturità, basta osservare queste due splendide, intime mamme, 1485-90, la prima alla Carrara di Bergamo, la seconda a Berlino, entrambe su tela con la consueta tecnica della tempera a colla come il “Cristo morto”. Credo superfluo qualsiasi commento. 

Ma anche in una incisione all’Albertina di Vienna, 1480-85 circa, Mantegna esprime l’intensità dell’amore materno con straordinaria sincerità. Abbiamo poi un dipinto, controverso, ma che Lionello Puppi assegna con assoluta sicurezza al Mantegna anche per due documenti d’epoca che ne confermano l’autografia e una datazione al 1491, sottolineando poi che lo Squarcione, il maestro del giovanissimo Andrea, visto che le figure che il giovane dipingeva sembravano statue, lo invitava a dipingerle dello stesso colore delle statue. Forse ricordandosi di ciò Mantegna crea questo soggetto surreale in cui in un paesaggio con reperti archeologici su una piatta parete, appare l’esatta riproduzione dell’incisione con la maternità, ma con una luminosità, ben diversa dal resto, che la rende come inconsistente e pura luce. Come mantegnesca mi convince l’idea, l’inventare questo straniante accostamento, meno la parte archeologica, ma meno ancora il paesaggio di destra che ha ben poco della mano del Mantegna e che potrebbe appartenere ad un collaboratore.   Del resto, non ci sorprende che ogni tanto il Mantegna crei dal nulla delle novità e ci sorprenda con questi frutti rigogliosi delle sue intime riflessioni. Anche se, da personalità tosta come è, non abbandona le sue certezze, riprende le storie della mitologia e le ricombina come bassorilievi di marmo o bronzi dorati su lastre di marmo come questa notevole “Introduzione del culto di Cibele a Roma” del 1500 circa.

Attualmente il nostro “Cristo morto” ha una nuova collocazione a Brera, in una lunga Sala, dall’intensa colorazione blu, in compagnia dei veneti del Quattrocento, ma posto col dovuto risalto su un pannello grigio ed in mezzo alla stessa galleria, nell’immagine lo vediamo, mentre a destra osserviamo una parte del Polittico di S Luca di Mantegna con in basso la S. Scolastica col libro che abbiamo incontrato ed accanto la Pietà di Giovanni Bellini, che sessant’anni fa affiancava il “Cristo morto”.

Per un certo periodo il dipinto ha avuto una sistemazione alquanto scenografica, progetto del regista Ermanno Olmi, che in fondo a questa Galleria aveva ricavato come una piccola stanza completamente rivestita di nero e buia, ponendo il quadro, senza cornice, ad una altezza di circa 80 cm ed illuminando solo esso. Questo allestimento suscitò un vivace dibattito, personalmente non lo ho mai condiviso in quanto ritengo assolutamente fondamentale che ogni opera venga rispettata per quello che è, un dipinto deve rimanere tale e non trasformarsi in diapositiva di sè stesso, o peggio ancora assumere il valore di reliquia cattolica come era la sensazione che si aveva osservandolo in quel tipo di contesto, perdendo la dimensione artistica di capolavoro rinascimentale ed il suo autentico significato e valore.

Che fare, ora? Credo che prenderò il mio vecchio testo Castelfranchi Vegas di Storia dell’Arte, ritornerò in Pinacoteca, raggiungendo quella Sala intima, mi siederò sul divano verde e guarderò il “mio” Mantegna, dando ogni tanto uno sguardo alla Pietà del Bellini, e leggerò un po’, riprendendo di tanto in tanto il colloquio silenzioso con lui. Mi alzerò e scendendo la ampia doppia scala col Giuseppe Parini o il Cesare Beccaria, passando nei grandi corridoi-androni bui del Palazzo di Brera, entrerò in una delle aule, mi siederò con i miei compagni ad ascoltare la professoressa Rossi che ci parlerà…del XII Canto dell’Inferno di Dante…ma so che giovedì pomeriggio, di nuovo, salirò e riprenderò il silenzioso colloquio con l’Amico in scurto.