LA PIETÀ RONDANINI DI MICHELANGELO
“la morte sostiene la vita”
Corrado Mauri
La Pietà Rondanini di Michelangelo è un’ opera che sin da giovanissimo mi ha sempre emozionato suscitando in me un fascino del tutto particolare e coinvolgente che raramente altre opere mi hanno provocato, una sensazione di straordinaria unicità.
Michelangelo è l’artista che ho amato e amo di più (successivamente, si sono affiancati Piero della Francesca ed il Caravaggio), è stato il mio punto di riferimento in tutto il corso della mia carriera artistica e lo è tuttora da docente e studioso, accompagnandomi come il Grande Maestro che ti apre ogni strada espressiva con l’esempio delle sue enormi qualità formali, alle quali corrispondono puntualmente quelle mentali, con le idee che ha perseguito con la forza dell’assoluta convinzione di creare il meglio possibile, proprio perché ottenuto attraverso un drammatico confronto, in primis con se stesso e poi con la realtà della vita.
Col tempo, studiando, disegnando e dipingendo, acquisite le capacità di analisi e di cosciente giudizio, ho capito le profonde ragioni di quel fascino, che non è assolutamente venuto meno, anzi, è solo cresciuto nel riscontrare una intima condivisione di intenti e valori che cercherò ora di esprimere.
Nel 1952 a Milano accadde un avvenimento civico di notevole importanza, la Rondanini era “stranamente” disponibile sul mercato in quanto gli eredi Vimercati Sanseverino misero in vendita il Palazzo Rondanini (via del Corso a Roma) e quindi anche la Pietà di Michelangelo, che era nel portico del cortile di quel Palazzo probabilmente già da fine Cinquecento, anche se c’é una totale mancanza di documentazione storica. Fu così che la direttrice di Brera Fernanda Wittgens scese in campo per acquisire quel Capolavoro per Brera. Per raccogliere i 135 milioni, necessari all’acquisto, mosse mari e monti, chiedendo aiuto alla Banca Commerciale, all’alta borghesia milanese e a chi poteva, rivolgendosi anche a Virginio Ferrari, sindaco di Milano, che decise di aprire una sottoscrizione pubblica tra tutti i cittadini per esercitare l’opzione d’acquisto, che divenne così un acquisto comunale. Fu un vero successo, tanto che il 1 novembre dello stesso 1952 la Pietà giunse a Milano, in treno, e fu collocata nella Cappella Ducale del Castello Sforzesco. Nel 1956 fu inaugurata la nuova sistemazione, curata dallo Studio di architettura BBPR, nella Sala degli Scarlioni, che, in parte isolata dal resto del contesto espositivo, pur con uno spazio circoscritto, permetteva un rapporto puntuale e preciso, quasi personale, come richiedono opere quali le Pietà.
Questa infatti, date le caratteristiche particolari del soggetto, che affronta il tema del dolore materno per la morte del figlio, espresso nella contemplazione passionale del corpo morto che ovviamente per il cristiano si carica di pregnanti significati religiosi, è un soggetto per il quale non sono assolutamente adatti grandi spazi. Infatti per la sua determinante necessità di intimità, per il bisogno di “personale” riflessione, di meditazione, solitamente ritroviamo queste opere in cappelle, absidi laterali, piccoli oratori, ambienti ben delimitati.
Dal maggio 2015 la Rondanini ha una nuova ambientazione, è stata allestita nel cosiddetto ex Ospedale Spagnolo, l’infermeria dove venivano curati i militari di stanza all’interno del Castello Sforzesco ed è in esso che troviamo, senz’altro, la maggior corrispondenza con l’opera. Luogo di dolore e sofferenza che ospita altrettanto intensi dolore e sofferenza. L’ampio ambiente, riallestito con sobrietà dall’Arch. De Lucchi, conserva, in specie nelle volte, tracce delle decorazioni ad affresco del secondo cinquecento in cui erano raffigurati gli Apostoli e parecchie scritte in cartigli con i versetti del Simbolo apostolico. La religione a conforto del malato.
Tuttavia alcuni aspetti della nuova ambientazione non mi convincono e non mi piacciono: in primo luogo la Scultura è posta su di un piedistallo a cilindro totalmente anonimo che, se ha la fondamentale funzione di porre in sicurezza l’opera in un sistema antisismico (e credo, maggiormente, per le continue vibrazioni dovute alla metropolitana), sul piano estetico appesantisce la visione d’insieme. Molto più consona era l’antica ara romana, la stessa che la sosteneva in Palazzo Rondanini a Roma e nell’allestimento BBPR, ora è esposta in un piccolo vano adiacente. Essa, proprio perchè più antica, sottolineava il concetto del trascorrere del tempo, uno dei tanti spunti di meditazione di fronte alla Pietà. Secondo: la Rondanini è al centro dell’ampio ambiente senza alcuno sfondo ed il solo movimento dei visitatori distrae dalla sua contemplazione. Terzo ed è il peggiore: entrando il primo impatto con l’opera non è frontale ma dal retro, viene meno l’immediata impressione emotiva, determinante per la stessa comprensione e per vivere la sua percezione con emozione.
Il tema della Pietà Michelangelo lo affronta per la prima volta all’età di 24 anni a Roma per il Cardinale francese Jean Bilhéres de Lagraulas, ambasciatore di Carlo VIII presso il Papa, per la sua Cappella in S. Petronilla a Roma. Il contratto richiede: “..che lo dicto mastro [Michelangelo] debia far una Pietà di marmo a sue spese, ciò è una Vergine Maria vestita, con Cristo morto in grembo…..in termine di uno anno dal dì della principiata opera”, un solo anno, puntualmente rispettato, per eseguire una delle sculture più perfette nella storia dell’Arte, non solo sul piano dell’estetica ma anche dei significati. La perfezione delle forme, oltre che essere segno di divinità, è una delle ricerche e degli esiti fondamentali del rinascimento. L’estrema raffinatezza del modellato e dell’anatomia, nonché degli straordinari panneggi suscitarono (e suscitano) ammirazione immediata, infatti questa è l’unica opera in cui Michelangelo sente la necessità di porre la propria firma, onde non sorgano dubbi sull’autore. Ma il fatto che l’Artista non solo scolpisce da par suo, ma costantemente pensa a quello che sta facendo, lo riscontriamo nel dolce dolore rassegnato di Maria, che ha le sembianze non di donna matura, ma quasi di adolescente, aspetto questo che ritroviamo unicamente in questa, tra tutte le pietà degli altri scultori ed anche pittori. Questo perchè lui nel raffigurare la madre di Dio che si è fatto uomo, la pensa, necessariamente e come è dalle scritture, priva di peccato, quindi non può che farla giovanissima e intatta, ingenua, il peccato è un peso, è una sconfitta ed in quanto tale invecchia anche il corpo e non solo l’anima: Maria ne è esente e quindi non può che essere bella e giovane.
Il tema del peccato non abbandona mai Michelangelo, è una costante motivazione per tutti i suoi soggetti. La lotta quotidiana che si compie per cercare di dare il meglio e cancellare ciò che di negativo è in noi segna giorno per giorno la sua vita, la sua opera, sino alla conclusione di questa nella sublime spiritualità della Rondanini.
Questo dramma lo percepiamo in quegli straordinari Prigioni, ora alla Galleria dell’Accademia a Firenze, dove il cercare di divincolarsi dalla materia che li costringe, li imprigiona appunto, si evidenzia attraverso il “non finito” michelangiolesco, un interrompere l’opera nel punto in cui l’espressività si è già compiuta perfettamente, non è più necessario andare oltre nello scolpire in quanto tutto è chiaramente leggibile. E ciò lo ritroviamo anche nella Rondanini. Lo stesso dramma troviamo nel Mosè di S. Pietro in Vincoli: nel suo atteggiamento, nello sguardo, rivela la forte tensione interiore, lui che è il profeta di Dio, colui che, tramite il roveto ardente, ha parlato con Dio. Se poi osserviamo lo stesso Padreterno nella volta della Sistina, sinceramente questi ci appare sì forte, imponente nei gesti perentori della creazione, ma nell’espressione terribile del volto sentiamo il rovello, quasi la rabbia, la coscienza che probabilmente l’uomo sarà una delusione; non a caso cinque scene dopo troviamo, appunto, il Diluvio universale. Ma il Dio michelangiolesco, anche visto di schiena, mentre va a creare la vegetazione, esprime la sua energica tensione, molto umana. Il Dio di Michelangelo manifesta una forza e potenza eccezionali, ma percepiamo in lui un lato potentemente umano, di certo il Dio del Vecchio Testamento non è solo, come nel Nuovo, evangelicamente amore, è anche il gesto assolutamente perentorio, senza perdono, di Giudice del Gesù del Giudizio Universale, sempre nella Sistina trenta anni dopo.
Dopo la Pietà vaticana Michelangelo riprende questo soggetto intorno agli anni quaranta col disegno per Vittoria Colonna, precedentemente, intorno agli anni trenta, rielabora in disegni alcuni soggetti come la Deposizione, il Compianto, il Trasporto o la Sepoltura in cui sperimenta nuove impostazioni figurative, ma questi temi non vengono puntualizzati chiaramente e quindi valgono come raffigurazioni di un’idea di fondo, interpretabile quindi anche come Pietà, con una costante, il Cristo morto sorretto da vari personaggi e sempre con le gambe abbandonate, che è la caratteristica fondamentale, appunto, della Rondanini.
Questo modo di comporre il corpo di Cristo morto lo ritroviamo già nel 1510, ma in pittura, un dipinto rimasto incompiuto e ora alla National Gallery di Londra, dove troviamo una puntuale anticipazione della posizione del Cristo della Rondanini.
È significativo che dal 1545 l’unico soggetto che Michelangelo rielabora in scultura è, appunto, la Pietà. Ciò dimostra come in Michelangelo determinati soggetti, modalità, figure e relativi atteggiamenti o posizioni sono come radicati sin dalle opere giovanili e sono costantemente ripresi in momenti od epoche diverse, conservandone l’ideazione, la ragione essenziale. Questo vale ed è riscontrabile in quasi tutti gli artisti, la propria natura, il modo di essere, di pensare, di ideare e creare di fondo non cambia, c’è la costante maturazione, lo sviluppo stilistico, mutano i contesti ma alcuni cardini, certe idealità, il carattere sono radicati e riemergono puntualmente ed inevitabilmente.
Avviene così che, nei primi anni cinquanta, Michelangelo scolpisce un’altra Pietà, la Bandini (nome dei primi proprietari che la conservavano nella loro Villa di Montecavallo, attuale Quirinale; dal 1721, invece, fu posta nel coro di S. Maria del Fiore a Firenze per volontà di Cosimo III de’ Medici e dal 1980 nel Museo dell’Opera del Duomo). Purtroppo anche questa opera ha storia travagliata con lo stesso Michelangelo che, secondo il Vasari, la danneggia irreparabilmente in quanto “quel sasso aveva molti smerigli, ed era duro, e faceva fuoco spesso nello scalpello”. La scultura, rimasta danneggiata, è terminata in modo accademico da Tiberio Calcagni, seguace del Maestro, nella figura della Maddalena. Qui assistiamo ad una variante decisamente notevole: a sostenere il corpo del Cristo è Nicodemo, che è un ritratto ben preciso, quello dello stesso Michelangelo, che dichiara così, senza mezzi termini, la propria intensa e sofferta religiosità e partecipazione al dramma. La scultura era finalizzata alla propria sepoltura.
Alla Pietà Rondanini Michelangelo lavora assiduamente sino agli ultimi istanti di vita, in condizioni di salute non buone, Daniele da Volterra in una lettera scritta al nipote di Michelangelo, Leonardo, puntualizza che proprio qualche giorno prima della morte, 18 febbraio 1564, “..Michelagnolo lavorò tutto il sabbato della domenica di carnovale e lavorò in piedi, studiando sopra quel corpo della pietà”. Sentiva ormai approssimarsi il momento finale della sua intensissima vita e voleva lasciare in questa opera, nella assoluta intimità di questa Pietà, il suo testamento sì artistico, ma, sono convinto, soprattutto morale. Pervicacemente credente, ci confida il risultato, il sunto di una lunga esperienza di uomo-artista (ormai quasi novantenne) che dice ed esprime le proprie idee tramite la concretezza delle opere. Concretizza quindi il risultato dei suoi ultimi pensieri e riflessioni, che già riscontriamo, comunque, nella produzione degli ultimi suoi anni.
Ecco perchè nella Rondanini sono presenti e ben leggibili momenti diversi, più versioni.
Si potrebbe datare la prima fase di esecuzione intorno agli anni 1553 o 1555, dopo la delusione della Pietà Bandini. Aveva “bozzato un’altra Pietà, varia da quella, molto minore”: a dimostrarlo è il braccio isolato e mutilo, ben definito nel modellato e di proporzioni maggiori, come lo sono le gambe anche queste rifinite, rispetto al resto della scultura. La rifinitura ci convince che l’opera doveva essere definita nella sua composizione generale. Solo successivamente, probabilmente a qualche anno di distanza, Michelangelo riprende e rielabora ulteriormente la scultura.
Questo ci conferma, inoltre, che questi particolari soggetti “religiosi”, sculture e disegni, erano creati solo per se stesso, erano una propria esclusiva intima esigenza, non frutto di alcuna commissione.
Come cambia la concezione della Pietà in queste ultime rielaborazioni? In modo sostanziale, c’è un ribaltamento della concezione, della strutturazione dell’opera.
Osservandola frontalmente abbiamo il Cristo morto con le gambe piegate verso sinistra, ben modellate, senza nessuna tensione nella resa della muscolatura, i muscoli non compiono nessuno sforzo, abbiamo visto anche precedentemente che le gambe sono rilassate, abbandonate: non possono sorreggere il corpo che necessiterebbe, quindi, per conservare questa posizione verticale, di essere sorretto. Il busto è più sbozzato che modellato, frutto di una continua essenzializzazione della materia. Le proporzioni diminuiscono rispetto al braccio mutilo, che è li, sembra proprio, per farci capire il processo di cambiamento: è un termine di confronto, la mutazione della concezione generale si evidenzia. Il busto si piega lievemente a sinistra mentre la testa si abbandona verso destra, in contrapposizione. Su questo corpo inerme si sovrappone quello della Madonna: già nelle visione frontale percepiamo che la testa della Vergine sopravanza quella del Cristo. quindi si appoggia: non sostiene il corpo del figlio. Infatti il suo braccio si sovrappone alla spalla di Gesù appoggiandosi appena sotto il mento di questi. Gesto che assolutamente non compie l’atto di sostenere, come diversamente accade in tutte le altre Pietà.
Ma è nelle visioni laterali che tutto questo si evidenzia in maniera assoluta, senza possibilità di interpretare altrimenti. I due corpi assumono un andamento curvilineo verso l’interno, il che dimostra la totale mancanza di sforzo. La testa della madre va oltre quella del figlio, tutto il suo busto è sopra la verticale del corpo di Cristo, che è in asse con la spalla della madre, sopraelevata rispetto al piano dei piedi di Gesù e quindi ancora più facilitata nell’appoggiarsi su di esso. Osservando dal lato del braccio mutilo l’immedesimazione delle due figure è ancora più evidente. in particolare le due teste sono sulla stessa linea curva. Questo è frutto di una ulteriore versione della testa della madre, di cui è ancora leggibile parte della fronte, un occhio e uno zigomo, nella porzione di velo a sinistra. Questa variazione nasce, probabilmente, dalla necessità di accostare il più possibile le due teste per evidenziare il contenuto e mesto dolore di una madre per la morte del figlio
Tutto ciò si osserva chiaramente anche nella visione posteriore con l’accentuato scorcio del busto della Madonna che si riversa in avanti sul corpo del Cristo.
Cosa si deduce da questa analisi dai quattro punti di vista cardinali della scultura? Che un corpo morto sostiene un corpo vivo. Cioè la morte sostiene la vita.
Michelangelo afferma così che è solo con la morte che si supera e si conquista la vera vita, sembra un paradosso, una concezione inaccettabile, ma è la semplice verità per un cristiano; è oltre questa vita, che va superata, che ci sarà quella vera nella contemplazione infinita di Dio, il sunto, il cardine e la meta dell’essere credenti.
Con mio disappunto, questa lettura, che è assolutamente esplicita ed inevitabile, in specie per chi è storico dell’Arte, nella sterminata bibliografia di questo capolavoro non è mai stata dichiarata chiaramente, è solo intuibile, rimane molto tra le righe, solamente uno psicologo (guarda caso un non addetto ai lavori!) londinese lo dice, senza però poi approfondire l’argomento. Solamente a conferma di ciò è un documento storico importante: l’inventario di quanto era presente nello studio di Michelangelo, stilato il giorno successivo alla morte dagli emissari del Papa che descrivono: “una statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite” quel sopra è di significato lampante.
Questa “normale” concezione della vita, che dovrebbe essere di tutti, ovviamente credenti, Michelangelo l’aveva espressa qualche anno prima in una delle sue Rime (sono oltre trecento) la 285 che riassume, in modo straordinario ed efficace, l’ideologia della sua maturità, il punto di arrivo di una costante lotta per essere fedeli e coerenti con se stessi e quindi per l’Artista con le proprie opere. Tra l’altro va detto che la intensa produzione poetica di Michelangelo non è ancora conosciuta e valorizzata per quello che veramente vale.
Trascrivo la parafrasi di questa rima per far si che la sua comprensione sia ben chiara, lascio poi ad ogni lettore la propria riflessione ed eventuale condivisione.
“Il corso della mia vita è ormai giunto
per un mare in tempesta, con una fragile imbarcazione,
al porto comune (la morte), da cui si passa per rendere
conto e giustificazione di ogni azione sbagliata o buona.
Perciò l’appassionata vocazione artistica,
che fece dell’arte il mio idolo e il mio signore,
ora riconosco quanto fosse ingannevole,
come tutto ciò che l’uomo desidera a suo danno.
I pensieri d’amore, un tempo piacevoli ma illusori,
che varranno ora, che mi avvicino a una duplice morte?
So che una è certa(la morte del corpo), mentre l’altra (quella dell’anima) mi minaccia.
Né la pittura né la scultura accadrà più che appaghino
il cuore, proteso verso quell’amore divino
che in croce distese le braccia per accoglierci.
Una sola sottolineatura mi concedo: da scultore Michelangelo chiude la sua poesia con una immagine figurativa reale, le braccia aperte del Cristo che nel dramma fisico della crocifissione diventano le braccia aperte dell’accoglienza, dell’amore.
Quanto dovremmo riflettere oggi, su questo gesto!
Voglio concludere affermando quanto quest’opera sia determinante per capire la forza straordinaria di Michelangelo che, a novant’anni, ha il coraggio di cambiare la concezione dell’Arte di tutta la sua vita precedente, nella necessità di aderire alla sua urgenza spirituale. Tutti i suoi personaggi, le sue figure hanno sempre manifestato una potenza fisica notevole proprio per lottare, per cercare di vincere la sfida che la vita quotidianamente ti sbatte in faccia, giusto, per concretizzare, guardiamo alla fisicità delle sante e dei santi del Giudizio Universale. Ora, mentre sta arrivando la morte, ribalta tutto: il corpo diviene come privo di muscolatura, non ha in sé nessuna forza, è semplicemente piatto, ma sostiene comunque: esprime una forza che non è più fisica ma solo dell’anima, è spirito.
Questo coraggio di negare il proprio linguaggio, di “rinnegare” le eccezionali creazioni che hanno costellato tutta la sua vita (la Sistina nella Volta e nella parete del Giudizio, il Davide, il Tondo Doni, i Prigioni, il Mosé, Il Giorno, la Notte, l’Aurora, il Crepuscolo e i duchi della Sacrestia nuova di S. Lorenzo, il Campidoglio, la Cupola di S. Pietro e le altre Pietà), tutte queste “potenze e lotte” si annullano, si annientano nella spiritualità della Rondanini. Questo coraggio, appunto, di “rinnovarsi” in altro, lo troviamo solamente in questo grande, immenso artista che però è e rimane UOMO del Rinascimento.
Quanto, ognuno di noi avrebbe bisogno di una Rondanini nella propria vita quotidiana ?
Le immagini della Pietà Rondanini sono tratte dal volume: LA PIETÀ RONDANINI di Maria Teresa Fiorio ed. Electa, 2004